Lo stress della Meloni tra ansia di prestazione e necessità di controllare tutto

Alessandro De Angelis La Stampa 16 gennaio 2023
Il “one woman show” che logora la premier
Andrebbe davvero indagato questo nervosismo sproporzionato di Giorgia Meloni. Insomma: c’è una criticità sulla benzina e, in prima persona, si espone in tv per tre giorni di fila, inanellando una serie di figuracce.

Ogni volta con una serie di smorfie che neanche gli emoticon di wathsapp. Va a fare un comizio a Milano, probabile vittoria annunciata e dice – indicativo di uno stato d’animo – di sentirsi sulle spalle un impegno pari a quello di Giuseppe Garibaldi.

Neanche tre mesi di governo e già trasmette stanchezza e scarsa serenità. Eppure il contesto generale, nei suoi fondamentali, è tutt’altro che ostile: i mercati tengono, le opposizioni non esistono, il capo dello Stato non è un problema. Chissà se Giorgia Meloni è a conoscenza di trame indicibili degli alleati. A occhio però è difficile vedere un fuoco amico in grado di impensierirla, se riuscisse, con uno sforzo di self-control, a tenere a bada quella spirale tra ansia da sondaggi e sindrome da complotto.

Le oscillazioni ci sono, e ci saranno: è semplicemente la fatica del governare. Pretendere di zittire Berlusconi, lo sanno pure le pietre, non è impossibile, è semplicemente inutile; la considera una sorta di usurpatrice, e non aspetta altro che una polemica per sentirsi ancora al centro della scena, tanto vale fare spallucce. Discorso che si può estendere anche a Salvini, che ha parecchi guai all’interno del suo partito. Ben altri logoramenti si sono visti nei governi di coalizione.

La sensazione è che i problemi, e il logoramento, Giorgia Meloni se li stia creando e amplificando tutti da sola. E sono la conseguenza di due fattori: il primo è il limite di fondo di un governo nato come un “one women show”, che la carica di onori, oneri e anche figuracce. Non c’è dossier su cui può contare su dei player in grado di mettere ordine evitando la sua sovraesposizione. Succede, quando si preferisce la fedeltà alla competenza: dall’assenza di un “regista” a palazzo Chigi a un ministro dell’Economia scelto in quanto all’opposizione nel suo partito, ma proprio per questo debole nella gestione delle criticità.

Il secondo, è che ancora non si comprende cosa voglia fare da grande il premier. Sospesa tra ciò che non è più (la Le Pen de noantri) e ciò che non è ancora (il leader di una moderna destra conservatrice) è un bivio, non dissimile da quello in cui si trovò Salvini col governo Draghi: evolvere nel nuovo contesto o governare col cuore fermo alla fase precedente.

E infatti ogni dossier è sospeso tra propaganda delle vecchie (inservibili) parole d’ordine e realtà, dall’immigrazione, al Mes al Pnrr. E’ altresì il bivio tra la duttilità di una cultura maggioritaria, che offra al paese, nel suo insieme, un orizzonte, di cui al momento non v’è traccia, e il minoritarismo di chi riduce tutto a una questione di fedeltà, disciplina, spettri di inciucio. In definitiva: tra la maturazione di una leadership e il governo confuso con un campo Hobbit.

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