Saviano: come cambia la mafia dopo Messina Denaro?

Roberto Saviano Corriere della Sera 18 gennaio 2023
Saviano: come cambia la mafia dopo Messina Denaro?
La gerarchia di Cosa Nostra è vecchia, come la società italiana. E gli interessi economici hanno permeato tutto

E dopo la cattura di Matteo Messina Denaro cosa succederà? In realtà non ha importanza rispondere a questa domanda perché tutto il peggio, il grave, l’irrimediabile sta già accadendo ed accade. Non sto spendendo toni apocalittici o esagerati, tutt’altro. Nel 2021 Banca d’Italia evidenziò che il giro di affari dei cartelli mafiosi valeva circa 38 miliardi di euro all’anno. Questi 38 miliardi di euro sono ben più di 100 milioni al giorno. Cento milioni al giorno che vengono movimentati e investiti, ma se a questo dato si aggiunge ciò che aveva già dichiarato la Direzione nazionale antimafia nel 2020, tracciando un patrimonio derivante dal narcotraffico di 400 miliardi di euro solo in Italia, comprendiamo che stiamo parlando di un’economia in continua espansione e che alimenta e sostiene l’economia legale. In questo momento, il tema mafie è completamente ignorato dal dibattito politico e in campagna elettorale è stato affrontato solo in modo retorico.

Le mafie, quando ammazzano, sono visibili; quando fanno affari sono invisibili e quando fanno affari in realtà va bene a tutti perché non è distinguibile il loro comportamento da quello di qualsiasi altro imprenditore o fondo d’investimento. I grandi affari in gioco continueranno a crescere, come la legge 104 che ha dato, spesso senza controllo, valanghe di denaro a imprese edili in molti casi diretta emanazione dei cartelli mafiosi (ma di tutto questo avremo prove solo negli anni: ora abbiamo solo indizi). I partiti, come abbiamo visto nelle indagini antimafia degli ultimi 20 anni, non hanno neanche un sistema vero per proteggersi dalle infiltrazioni e dalle alleanze mafiose perché delegano tutto alla magistratura. Se ci sono indagini, i partiti iniziano ad avere (ma non sempre, anzi) cautela nel candidare alcune figure; se non ci sono indagini non fanno accertamenti propri e in molti casi ricercano i potentati elettorali mafiosi. Eppure la politica dovrebbe poter fare una selezione, con informazioni proprie e conoscenza territoriale, non dovrebbe aspettare le sentenze dei giudici per selezionare il proprio personale politico. Invece sembra cercare proprio quei mediatori politici in grado di portare i flussi di pacchetti di voti di scambio.

Se si vuole arrivare dritti alle cose da fare il primo comportamento antimafioso sarebbe la legalizzazione delle droghe leggere: questo toglierebbe alle organizzazioni una importante fonte di profitto e alleggerirebbe il sistema giudiziario di leggi proibizioniste che colpiscono duramente i consumatori senza riuscire a rintracciare i grandi narcotrafficanti. Secondo la relazione al Parlamento della Direzione Investigativa Antimafia, l’economia sotterranea della cannabis vale circa 6 miliardi e corrisponde al 40% circa degli introiti delle mafie. Questo stroncherebbe un segmento importantissimo dell’economia mafiosa, quello dei gruppi emergenti. Ma torniamo a Messina Denaro, ora cosa succederà dopo di lui? Beh diciamo che è rischioso nell’analisi considerarlo solo un capomandamento con molto carisma: nessun uomo d’onore «semplice» capomandamento di provincia potrebbe gestire la massa di capitale che gli è stato attribuito dalle procure antimafia nel corso dell’ultimo decennio (nel 2007 individuati 700 milioni di euro, nel 2010 sequestrati beni per 1,5 miliardi di euro, nel 2018 sequestrati 1,5 miliardi di euro).
Rischioso pensare che la commissione che riunisce le famiglie di Cosa Nostra — benché non strutturata come un tempo — non esista più. Tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia raccontano di Messina Denaro come di un capo che non mette bocca nelle decisioni delle famiglie lasciandole libere, «U Siccu» ha gestito i propri senza rendere conto a nessuno, proprio perché non chiedeva ad altri di rendere conto. Cosa Nostra così ha perso struttura, unitarietà dopo la cattura di Provenzano ultimo erede del verticismo corleonista; Messina Denaro non ha cercato di governare come avevano fatto i suoi padrini ma ha governato con l’ossessione di intervenire il meno possibile, cosa che spesso ha portato allo sbando l’organizzazione lasciando le famiglie palermitane e quelle della provincia senza piani condivisi.

Cosa Nostra ha pagato la sua visibilità, l’estrema riconoscibilità dei suoi capi dopo la scelta stragista. Le altre organizzazioni continuano a sfruttare la sostanziale minore attenzione mediatica che nell’ultimo decennio è comunque aumentata rispetto al passato. Eppure quando, nel 2008, viene arrestato Pasquale Condello , boss della ’ndrangheta che negli ultimi anni ha assunto un potere di influenza politico-industriale di gran lunga superiore alla mafia di Messina Denaro, non c’è stata la stessa attenzione mediatica perché la ’ndrangheta ha saputo inabissarsi, perché la ’ndrangheta non incorona sovrani. Pari tra pari. Stessa cosa per la camorra: quando vengono arrestati a Napoli importanti capi, come Michele e Ciro Mazzarella, fermati lo scorso dicembre, non c’è stata l’attenzione che un risultato del genere meritava. Anche la faida di Ponticelli — combattuta con bombe esplose nel quartiere nella primavera ed estate scorse — non ha mai raggiunto l’attenzione nazionale. Queste distrazioni, che spesso accadono per incompetenza, diventano poi omertà politica e sociale.

Ci si chiede adesso: chi sarà il successore di Matteo Messina Denaro? Ci sono diverse ipotesi. Chi riuscirà a ricostruire la piramide dell’organizzazione? Seguendo la visione sclerotizzata dell’ultima Cosa nostra sarebbe designato Giovanni Motisi,«’U Pacchiuni», il chiattone, perché — benché faccia parte del mandamento Pagliarelli che non ha alcun peso in questa fase — la sua storia criminale potrebbe garantirgli i gradi per diventare capo. È stato in uno dei «gruppi di fuoco» di Riina e, seppur dal 1998 non si abbiano sue notizie, l’essere stato un fedele del capo corleonese gli attribuisce la mitologia giusta per poter essere riconosciuto leader. L’altro nome che viene molto citato è quello di Stefano Fidanzati, ma la Cupola, o quello che ne rimane, non darebbe mai il vertice dell’organizzazione a un uomo d’onore che è stato un narcotrafficante senza capacità di mediazione e comando politico.

Stiamo parlando di uomini maturi, tutti sopra i settanta anni. Questo dimostra che Cosa nostra risente di una struttura organizzativa ricalcata sulle dinamiche del nostro Paese: i vertici affidati a persone anziane, lentezza decisionale, utilizzo solo di vecchi canali, incapacità di rinnovarsi e di vedere nuove possibilità di alleanze strategiche. E soffre ora mancanza di affiliazione, se paragonata alle altre organizzazioni, che dispongono di una quantità molto maggiore di soldati. Camorra, ’ndrangheta, società foggiana sono in grado di essere molto snelle e di strutturarsi in forma liquida.

Una delle forze della ’ndrangheta, per esempio, è stata quella di non avere una struttura centralizzata ma federale, attribuendo il «bastone del comando» a una figura consolare, esclusivamente quando c’era da dirimere faide che rischiavano di danneggiare tutte le famiglie. Cosa nostra, invece, appare come un pachiderma monolitico distrutto dalla burocrazia del controllo interno voluta dai corleonesi: si è progressivamente consumata, soprattutto negli ultimi anni. Ma siamo tutt’altro che vicini alla sua estinzione. Ad oggi, Cosa nostra sul piano del narcotraffico è sostenuta dagli storici alleati: in Campania i maranesi (Marano di Napoli) che sarebbero i Nuvoletta-Polverino, che pur essendo in Campania non sono camorristi ma mafiosi, e che continuano a essere i grandi fornitori di hashish e marijuana per diverse famiglie del territorio siciliano. E poi le famiglie calabresi, storicamente alleate ai corleonesi, i Commisso, i De Stefano-Tegano. Ma in realtà tutto (o quasi, se escludiamo le famiglie siciliane con base in Sudamerica) il narcotraffico che passa per le mani di Cosa nostra ormai è egemonizzato da un’OPA — si direbbe nel linguaggio finanziario — dei calabresi.

Ci sono prove che gli ’ndranghetisti scelsero di appoggiare la fazione corleonese contro i palermitani negli anni ’80 ma successivamente se ne allontanarono nella fase stragista e terroristica, consci che avrebbe portato all’impossibilità di fare affari ma soltanto di imporre le proprie ragioni alla politica; politica che la ’ndrangheta ha sempre preferito gestire in maniera diversa rispetto a Cosa Nostra.

Oggi le mafie sanno che decidere direttamente i ministri significa esporli a troppa luce, sospetti, condanne che comprometterebbero gli affari. In passato, al contrario, pretendevano che ci fossero direttamente uomini loro, esponenti di famiglie d’onore che si installassero nelle istituzioni. Oggi si preferisce governare i flussi di denaro che sostengono i politici e i partiti, avere uomini nella burocrazia di Stato che resta immobile al passare della maggioranze, ci si installa nei luoghi della spesa e del controllo e che sono immuni alle maree ideologiche. Se si vuole davvero conoscere la risposta alla domanda «e ora ,dopo la cattura di Messina Denaro?», bisogna dirsi questo: «ora costringiamo il dibattito sulle mafie ad essere sempre più informato e presente, ma soprattutto il più lontano possibile dalla propaganda».

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