Mambro, Fioravanti e una piccola storia ignobile sulla strage di Bologna

Stefano Cappellini La Repubblica 18 gennaio 2023
Mambro, Fioravanti e una piccola storia ignobile sulla strage di Bologna
Mambro, Fioravanti e una piccola storia ignobile sulla strage di Bologna
La campagna per cancellare la parola fascista dalla matrice dell’eccidio del 1980: che farà Meloni ora che è premier?

 

C’è da raccontare una storia ignobile, neanche piccola, legata alla strage fascista alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: 85 morti e 218 feriti. Ma prima è necessaria una breve premessa. La vittoria dello stragismo in Italia si misura anche da una doppia beffa: di alcune stragi, come la prima di Piazza Fontana a Milano nel 1969, non esistono colpevoli ufficiali nemmeno dopo decenni di indagini e processi; di altre, invece, abbiamo nomi e cognomi dei responsabili, eppure le sentenze definitive di condanna sono delegittimate da anni di campagne politiche e mediatiche, al punto che un pezzo rilevante di opinione pubblica dà ormai per acquisito che tali condanne non valgano nulla. La bomba alla stazione di Bologna è l’esempio di questa seconda specie.

Nel 1995 la Cassazione confermò l’ergastolo per i terroristi neri dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari) Francesca Mambro e Valerio Fioravanti e condannò per depistaggio il capo della loggia massonica P2 Licio Gelli e alti esponenti dei servizi segreti. Nel 2007 si aggiunse la condanna in Cassazione di un altro neofascista, Luigi Ciavardini, all’epoca dei fatti minorenne. Si sono conclusi con due ergastoli in primo grado, e sono dunque ancora in corso, i processi a Gilberto Cavallini, anche lui ex Nar, e Paolo Bellini, esponente di Avanguardia nazionale. In quest’ultimo filone è emersa con chiarezza anche la responsabilità di Gelli, morto nel 2015, come mandante e finanziatore della strage di Bologna, commissionata alla manovalanza neofascista.

La campagna innocentista smontata da un libro
Nonostante la sequenza concatenata e concordante di verità giudiziarie, Mambro e Fioravanti – nel frattempo tornati in libertà dopo un carico complessivo di altri 17 ergastoli, nove lei e otto lui, frutto di 33 omicidi per stare solo ai reati più gravi – sono sostenuti da una campagna innocentista trasversale che va avanti da quasi trent’anni e che nel tempo ha chiaramente cambiato segno e obiettivi: partita più come una mobilitazione garantista, nello storico comitato “E se fossero innocenti?” c’erano radicali, verdi, molti redattori del quotidiano il Manifesto insieme a missini ed ex brigatiste rosse come Barbara Balzerani e Nadia Mantovani, è diventata un’operazione di revisionismo storico tesa a rilanciare piste alternative alla bomba fascista e guidata da esponenti della filiera Msi-An-FdI, che oggi esprime la presidente del Consiglio e il partito di maggioranza relativa in Parlamento.

Dopo anni di inquinamento storico e decine di pubblicazioni più o meno sconce sulle teorie “alternative” alla verità giudiziaria, arriva come una boccata d’aria fresca un libro scritto da Paolo Morando, La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito (edito da Feltrinelli, 20 euro ben spesi). Vi si trova spiegato il filo che lega le sentenze del passato e quelle più recenti. Senza accanimenti personali, Morando smonta tutti pezzi della campagna innocentista: la presunta inattendibilità dei testimoni che hanno portato alla condanna di Mambro e Fioravanti; il presunto carattere spontaneista e idealista della loro militanza “rivoluzionaria”, che secondo i difensori li avrebbe resi i capri espiatori ideali; la presunta incompatibilità tra i vari spezzoni del neofascismo armato di quegli anni, che restava tutto legato ai burattinai della strategia della tensione, a cominciare dal disciolto Ordine nuovo (il cui fondatore Pino Rauti è stato omaggiato dalla figlia Isabella, oggi sottosegretaria, in occasione dell’ultimo anniversario della fondazione del Msi).

Il tradimento
Veniamo alla storia ignobile, raccontata nella seconda parte del libro. Tra le 85 vittime della strage c’è un ragazzo romano di 24 anni, Mauro Di Vittorio, cresciuto nel quartiere di Torpignattara. È come tanti coetanei dell’epoca uno di quei giovani che, all’alba degli anni Ottanta, si è messo alle spalle la militanza nella sinistra extraparlamentare per cercare un suo spazio nel mondo. Vive da squatter a Londra, campando di lavoretti. Per una sfortunata serie di coincidenze si trova alla stazione il giorno in cui esplode la bomba.

Dopo la strage sua sorella, Anna Di Vittorio, conosce e sposa Gian Carlo Calidori, amico fraterno di Sergio Secci, il cui cognome a molti suonerà noto: era un altro ragazzo ucciso nella stazione ed era figlio di Torquato, storico presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Bologna. Anna e Gian Carlo, attivissimi nella richiesta di istituire una giornata della memoria per tutte le vittime del terrorismo, che è poi diventata la giornata del 9 maggio, nell’aprile del 2008 scrivono di loro iniziativa una lettera delicata e profonda a Mambro e Fioravanti: vi sostengono, in ultimo, la necessità di riconciliarsi con loro e con il mondo, per mettersi alle spalle lutto e dolore. Mambro e Fioravanti, che si sono sempre proclamati innocenti, rispondono alla lettera. Ne nasce un carteggio e seguono alcuni incontri di persona. Nel corso di uno di questi, una cena, Mambro e Fioravanti chiedono ad Anna e Gian Carlo di produrre una lettera da allegare alla richiesta di libertà condizionale per lei. La lettera viene scritta e contribuisce al parere positivo del giudice.

Passa qualche anno. I rapporti tra la coppia di ex terroristi e quella di congiunti delle vittime si sono allentati. Nel dibattito pubblico è cresciuta la tesi della pista palestinese, secondo la quale la bomba a Bologna sarebbe una ritorsione per il tradimento del “lodo Moro”, cioè l’accordo segreto e informale che prevedeva libertà di transito in Italia per le organizzazioni palestinesi in cambio della garanzia di non commettere attentati sul nostro territorio. Era infatti accaduto, circa un anno prima di Bologna, che una automobile che trasportava un missile appartenente all’arsenale del Fronte per la liberazione della Palestina, auto con a bordo un importante leader dell’Autonomia operaia romana, fosse stata intercettata in un posto di blocco a Ortona, con seguito di sequestri e arresti.

Per i teorici della pista palestinese questa sarebbe la miccia dell’attentato di Bologna, attribuito al famigerato sciacallo Carlos, con la collaborazione dell’ultrasinistra italiana. Movente dei palestinesi: far pagare al governo italiano il tradimento dei patti. Qual è il pilastro, si fa per dire, di questa tesi? Proprio la presenza tra le vittime di Di Vittorio, che nella pubblicistica “alternativa” diventa un militante di Autonomia operaia. Esce tra gli altri un libro, Bomba o non bomba, scritto dal bolognese Enzo Raisi, già deputato di Alleanza nazionale. Ma non basta: con una lettera pubblicata dal Giornale nel 2012, Fioravanti rilancia il lavoro di Raisi e punta il dito su Di Vittorio: perché, scrive l’ex Nar, non si è indagato meglio su di lui? Avete capito bene: pochi anni dopo aver chiesto e ottenuto alla sorella di Di Vittorio un attestato utile alla libertà della moglie, l’ex terrorista ne addita il fratello come responsabile della strage.

Un dubbio su Giorgia Meloni
Gli ultimi fatti, prima di chiudere con un dubbio su Giorgia Meloni. La procura di Bologna ha indagato sulla cosiddetta pista palestinese e ha archiviato. Nelle motivazioni, Di Vittorio è definito “vittima oggettiva” della strage. Nonostante questo nuovo pronunciamento dell’autorità giudiziaria, la campagna revisionista prosegue fortissima: un’operazione di depistaggio ideologico nella quale continuano a distinguersi soprattutto esponenti del partito di Meloni, determinatissimi a cancellare la parola “fascista” dalla matrice della strage. Nel quarantaduesimo anniversario della strage, lo scorso 2 agosto, Meloni, impegnata già nella campagna elettorale che l’avrebbe portata a Palazzo Chigi, ha detto: “La strage alla stazione di Bologna di 42 anni fa rappresenta una ferita aperta per tutta la Nazione. Gli 85 morti e gli oltre 200 feriti meritano giustizia, per questo continueremo a chiederla insieme alla verità. Lo dobbiamo alle famiglie delle vittime e a tutto il popolo italiano”. Come se non esistesse alcuna sentenza. Come se la verità fosse occulta e negata. Sarà interessante capire se e come la presidente del Consiglio onorerà nel suo ruolo il prossimo anniversario della bomba di Bologna.

 

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