La premier neozelandese spiazza tutti e si dimette: «Sono umana, non ho più forze».

Annalisa Cuzzocrea La Stampa 20 gennaio 2023
La scelta di Jacinda
La premier neozelandese spiazza tutti e si dimette: «Sono umana, non ho più forze». Ha guidato il Paese dal 2017 tra molte crisi prima fra tutte l’attacco di Christchurch

Jacinda Ardern allarga il sorriso per nascondere le lacrime, mentre annuncia al mondo che non solo non si ricandiderà per un nuovo mandato, ma che intende dimettersi adesso, subito. La Nuova Zelanda avrà un nuovo premier entro il 7 febbraio.

Lei, la giovane donna prodigio della politica mondiale, la più progressista tra i progressisti, la prima a guidare un Paese a soli 37 anni e ad avere, nel frattempo, anche una figlia (l’unico precedente era stata Benazir Bhutto in Pakistan) non ha paura a dire che le mancano le forze per andare avanti. «Per un mestiere come questo devi avere il serbatoio pieno e una riserva per i momenti difficili», spiega Ardern. E lei, di energia, non ne ha più.

Da questa parte del mondo, noi di Jacinda abbiamo visto solo la luce. L’empatia e il calore con cui ha affrontato il più grave attentato terroristico di sempre sul suolo neozelandese, l’attacco alla moschea di Christchurch da parte di un suprematista bianco di cui la premier ha rifiutato di pronunciare il nome in Parlamento, pur di non dargli la fama oscura che cercava; la successiva decisione, immediata e irreversibile, di vietare la vendita delle armi semiautomatiche nel Paese; la presenza – festosa – al Gay Pride del 2018 a Auckland; la formazione – con la rielezione che aveva dato a suoi Labour la maggioranza assoluta – del Parlamento più inclusivo di sempre (donne, persone Lgbtq, minoranze religiose).

Un numero di morti per Covid molto basso, poche migliaia di persone su oltre 5 milioni di abitanti, grazie a un’immediata chiusura delle frontiere nella prima fase, a un lockdown molto duro nella seconda – con conseguente crisi economica ancora in corso – e a una rigida politica di vaccinazione nella terza.

Tutto questo non è stato semplice da affrontare. A un certo punto del suo discorso Ardern dice: «Le decisioni che ho dovuto prendere sono state continue e pesanti». E quindi no, questi cinque anni e mezzo non sono stati facili nonostante il sorriso, il carisma, la capacità di rispondere secca a un giornalista misogino che chiede – durante una conferenza stampa con la premier finlandese Sanna Marin – se la ragione del loro incontro è il fatto di essere due giovani donne in politica: «Avrebbe fatto la stessa domanda a Obama e Key?».

Non avrebbero chiesto al suo predecessore John Key perché incontrava Obama, i giornalisti, così come a lui sarebbero state risparmiate le settimane di polemiche dovute al fatto che – quando durante il mandato di Ardern è nata la figlia Neve – lei ha preso sei settimane di maternità. Troppo poche, per alcuni. Comunque troppe per un premier, secondo i più conservatori. Che non hanno visto di buon occhio neanche la presenza della neonata al Consiglio generale delle Nazioni Unite, aggrappata alla madre che a quell’età a casa non voleva lasciarla.

Dice Sam Neill, attore di origine neozelandese, che a Ardern non sono stati risparmiati negli ultimi mesi insulti sessisti e misogini. Mentre noi osservavamo la leader decisionista, ma col sorriso, rivendicare il potere della gentilezza in politica, parte del suo Paese la guardava con sospetto: soprattutto la galassia No vax e l’estrema destra favorevole alla liberalizzazione delle armi. A inizio febbraio avrebbe dovuto tenersi il consueto grande barbecue per la festa nazionale neozelandese, ma i servizi di sicurezza quest’anno lo hanno sconsigliato per le troppe minacce che incombono sulla testa della premier.

Ardern ha avuto sempre, in questi quasi sei anni, il dono della coerenza e della sincerità. Anche quando si è trattato di dire cose impopolari, ad esempio sui vaccini. E quindi c’è da crederle quando invita a non cercare dietrologie, ragioni oscure, dietro il suo passo indietro. «Non lascio perché è dura, altrimenti lo avrei fatto due mesi dopo aver accettato quest’incarico». Il punto non è la grandezza della sfida, ma chi si è nel momento in cui la si affronta. Avere il coraggio di guardarsi dentro e chiedersi: «Sono in grado di guidare il mio Paese ora? Ho le forze necessarie per farlo?».

E dirsi no, non lo sono. E avere il coraggio di annunciarlo al mondo chiedendo contemporaneamente al proprio compagno: «Sposiamoci, finalmente». E promettendo a una bambina di quattro anni: «Quest’anno, quando comincerai la scuola, io ci sarò». L’unica cosa da capire «dopo sei anni di sfide così enormi, è che sono umana. I politici sono umani. Diamo tutto quello che possiamo, finché possiamo, poi viene il tempo di lasciare. Questo è il mio tempo di lasciare».

Solo, non ci era mai accaduto di vedere un premier che lo facesse prima che a sfiduciarlo fosse il Parlamento, il suo partito, uno scandalo qualunque. Prima di Jacinda Ardern non lo aveva fatto nessun premier, né uomo né donna. Non con la limpidezza delle sue ragioni: le forze che mancano, le priorità cui dedicarle.

C’è una frase alla fine del discorso che è stata meno ripresa di tutte le altre, ma che è forse la più importante: «Spero di avervi fatto comprendere che si può essere gentili, ma forti. Empatici, ma decisi. Che puoi essere il tipo di leader che vuoi, un leader che sa quando è il momento di andar via».

Dopo decenni di potere quasi sempre declinato al maschile, queste frasi suonano rivoluzionarie. Ci sono mestieri che divorano la propria vita e non può essere un caso che sia una donna la prima a non vergognarsi di dire: non ho più le forze per portare a termine quest’impegno, scelgo la mia famiglia.

Ci sono femministe cui sembrerà una resa, altre che la vedranno come una conquista. Avere la capacità di guardarsi dentro e capire cos’è meglio per sé, per le persone che si amano e perfino per il proprio Paese. Liberarsi dall’ansia di dimostrare di essere all’altezza del mito che si è incarnato (la più giovane, la donna, la progressista). Liberarsi dal fascino del potere, dalle lusinghe della fama, dalla brama di mantenerla. E poi ci sarà chi dirà facile, per una privilegiata, ma se non hai i soldi per andare avanti non è che puoi lasciare un lavoro, anche se ti rende infelice.

Ieri, il compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, ha raccontato di com’è stato difficile riorganizzare la loro vita ora che lei è diventata presidente del Consiglio. E ha raccontato che la premier torna ogni sera alle undici, ma che la figlia cresce serena.

Non ha nascosto quanto sia difficile, non ha fatto finta che la questione non si ponga, perché si pone per un leader di partito come per tutti quelli che hanno mestieri senza orari, senza limiti, pieni di responsabilità che un cittadino normale a stento riesce a immaginare. «Questo ruolo – siega Jacinda – comporta una responsabilità», se non si è in grado di sostenerla si lascia il posto a qualcun altro. Anche per questo, oltre che per un’ovvia ragione di democrazia, le leadership non dovrebbero essere eterne.

Nelle aziende come in politica. Perché si mangiano la vita e servono salti mortali per tenere insieme tutto. Vale per le donne e per gli uomini, certo. Ma il mondo del potere, finora, è stato disegnato a immagine e somiglianza dei maschi. Dei loro ritmi, dei loro bisogni, delle loro esigenze. E quindi sì, per le donne ci sono – ovunque – problemi in più, pregiudizi in più, attacchi più severi quando vengono i momenti difficili. Non ammetterlo, significa solo continuare a non voler fare nulla per cambiare.

 

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