Ernesto Assante La Repubblica 21 gennaio 2023
Giù le mani dai Måneskin
Alzate. Puntate. Fuoco! Obiettivo: i Måneskin. È bastato che tornassero in scena con un nuovo album, Rush , e una presentazione “spettacolare” dell’album stesso, a scatenare una clamorosa ondata di critiche alla giovanissima band romana.
A passare da band amata al punto di diventare in pochi mesi un fenomeno planetario, al gruppo che si ama odiare, ci vuole ben poco, soprattutto nell’immediatezza del mondo dei social, dove una qualsiasi opinione diventa virale nell’arco di qualche istante. E dove ci si fa notare soprattutto se si dicono cose che non seguono la corrente, o che, meglio, seguono una corrente alternativa a quella di maggioranza. Fa “fico”, insomma, insultare i Måneskin, perché ormai si sono venduti l’anima, perché non sono abbastanza rock o, opinione più in voga, non lo sono mai stati, perché sono un prodotto dell’industria, perché non sono abbastanza bravi e via discorrendo.
Potrebbe essere tutto vero e, francamente, niente di tutto questo sarebbe un peccato mortale. Nel mondo del rock ci sono stati artisti maiuscoli che hanno venduto la propria anima senza che diventasse reato, ci sono artisti che abbiamo amato perdutamente che non sono stati abbastanza rock o che non lo sono stati affatto, e ancora oggi le nostre playlist del cuore sono zeppe di prodotti dell’industria, di musica di consumo, di idiozie passeggere o di eterne puttanate. Per non parlare di quante band che hanno suonato male sono addirittura entrate nell’Olimpo del rock stesso.
Quindi perché prendersela così con i Måneskin? Proviamo ad azzardare delle ipotesi. Le critiche che vengono dall’estero sono spesso basate su un pregiudizio, per molti anni motivato: il rock è roba americana e inglese, quindi chiunque, europeo o del resto del mondo, che lo pratichi e lo frequenti, è comunque un prodotto di risulta di una cultura angloamericana. È stato vero qualche decennio fa, ma da molto tempo ormai il rock è lingua comune per esseri umani dislocati al di fuori dell’impero musicale angloamericano, molti di noi, compreso chi scrive, sono cresciuti ascoltando rock e considerandolo parte integrante della propria cultura, nel caso specifico della cultura italiana.
Solo un’errata convinzione “proprietaria” di un linguaggio musicale può far pensare che una band italiana non sia ampiamente legittimata a suonare rock. E, diciamolo con maggior chiarezza, solo una vecchia visione “imperiale” della cultura di massa può far credere a qualcuno che le ultime generazioni siano cresciute tutte in maniera “local” e che la globalizzazione del pop non sia già ormai assodata. Soprattuttonella musica, dove Fabri Fibra può fare rap e Fabrizio Bosso suonare jazz.
Ma, elemento non secondario, Fibra e Bosso fanno la loro musica in Italia, al massimo in Europa, mentre i Maneskin stanno mietendo successi in America, scavalcando decine, centinaia, migliaia di band a stelle e strisce. E qui entra in campo la seconda categoria di critiche, quelle inevitabili, che arrivano da un intero esercito di rosiconi, sia in Italia che all’estero, che sul “perché loro e non io che sono anche più bravo” hanno costruito un’esistenza.
La risposta è semplice: i Måneskin hanno toccato una corda tesa e l’hanno saputa far vibrare, con la loro energia, la loro gioventù, la loro sfacciataggine, la loro magnifica e poderosa presunzione. Altri, magari anche con pedigreemigliori, non ci sono riusciti, tutto qui. E non è poco.
Poi ci sono le critiche più “artistiche”, che azzardano paragoni con i migliori artisti italiani e, più coerentemente, con le stelle del rock del bel tempo andato. Bene, diciamolo una volta e per tutte: i Måneskin non sono i Led Zeppelin, e nemmeno i Sex Pistols (sostituite i due nomi appena citati con qualsiasi altro). Si, è vero, e ci piace aggiungere che Calcutta non è De Gregori o Battisti e Ariete non è Mina. E meno male.
Perché i tempi cambiano, la realtà muta, e tutti noi abbiamo bisogno di artisti che vivano il loro tempo alla loro maniera. Così come i Led Zeppelin non erano Elvis Presley e Battisti non era Domenico Modugno. E via così andando a ritroso nel tempo. I Måneskin sono bravi, sanno fare il loro mestiere molto meglio di tanti altri, sono credibili, potenti, rappresentano un mondo nuovo e lo rappresentano bene, con libertà e passione.
Un’ultima cosa va detta sul “matrimonio” andato in scena due giorni fa. La storia del rock e del pop ha visto feste ben più glamour, vistose, eccessive, trasgressive, volgari, indecenti, ma in nessuna di queste una band, anche se in maniera divertente e divertita, si è giurata eterno amore, fedeltà, comunione di intenti e fratellanza come hanno fatto i Måneskin.
Un gesto “politico”, lasciatecelo dire, che afferma che “insieme è meglio” nel pieno dell’era dell’individualismo social, dell’egoismo autoreferenziale. Politica pop? No, un gesto esemplare, magnificamente ironico quanto sostanziale, per dire che ora e qui i Måneskin sono “per sempre”.
Un bell’obiettivo per quattro ragazzi (Victoria, Thomas e Ethan hanno 22 anni, Damiano 24), suonano a un volume spaventosamente alto, sono belli, allegri, sexy e esagerati, sono italiani, stanno conquistando il mondo, e hanno davanti tutto il futuro che vorranno avere.