Paolo Garimberti La Repubblica 21 gennaio 2023
Ramstein, il rischio di un’escalation nella guerra
Il vertice in Germania fa prevedere che le ostilità saranno ancora lunghe
All’undicesimo mese di guerra il segnale che giunge dalla riunione dei Paesi sostenitori di Zelensky, nella base americana di Ramstein, è che i combattimenti in Ucraina non finiranno tanto presto. Anzi, entrambe le parti si preparano a un’“escalation”, che potrebbe scattare poco dopo il primo anniversario dell’invasione russa. E questa previsione interpella gli alleati del governo di Kiev perché impone un salto di qualità degli aiuti militari, al quale non tutti sono politicamente preparati e disponibili, a partire dai riluttanti tedeschi, che hanno cambiato il ministro della Difesa, ma non la linea di una prudenza che fa infuriare altri membri della Nato, prigionieri del ricatto di Berlino sui carri armati Leopard.
La questione della fornitura di carri armati all’esercito ucraino, il grande tabù di questi primi undici mesi che sta cedendo di fronte all’ineluttabilità che la guerra vada avanti per molti mesi (se non anni) ancora, è sintomatica degli umori che dividono la coalizione e che serpeggiavano ieri nei corridoi di Ramstein. Perché, al di là degli aspetti tecnici relativi ai problemi dell’addestramento o alla complessità della gestione e della manuntezione degli Abrams americani o dei Leopard tedeschi, la vera domanda di fondo, che non può più essere elusa con giochi lessicali, è: aiutare l’Ucraina solo a difendersi o anche a offendere, per riconquistare la sua integrità territoriale e quindi, di fatto, a vincere la guerra?
E il timore di quale possa essere la risposta comincia a insinuarsi nell’apparente sicurezza da vetero superpotenza finora ostentata dal Cremlino. La minaccia arrivata dall’ex presidente Dmitrij Medvedev, ormai assurto al ruolo di propagandista capo degli “ultras” di Putin, indica che la Russia comincia a pensare di non poter vincere questa guerra, o addirittura di poterla perdere: “La sconfitta di una potenza nucleare in una guerra convenzionale potrebbe provocare una guerra nucleare”, ha ammonito Medvedev. Il senso di isolamento, che comincia ad attanagliare i vertici russi, è riflesso in un articolo di Dmitrij Trenin, analista militare molto quotato del Carnegie Center di Mosca (ora chiuso). “Per la prima volta nella storia — ha scritto — la Russia non ha un solo alleato in Occidente. Il grado di coesione dei Paesi dove si parla inglese, in Europa e in Asia, alleati degli Stati Uniti, ha raggiunto livelli mai visti”.
Con il suo acuto senso della comunicazione, Zelensky ha segnalato il momento di svolta di questo undicesimo mese di guerra avvertendo in videoconferenza i Paesi sostenitori riuniti a Ramstein che “il tempo è un’arma della Russia”. Nel giro di sei-otto settimane, dopo una poderosa iniezione di nuovi coscritti (fino a quasi due milioni di uomini in totale, secondo alcune stime) e di nuovi mezzi, che è in corso in questa fase, la Russia potrebbe lanciare una grande offensiva: a cavallo del primo anniversario dell’“operazione militare” speciale, quando i primi climi primaverili faciliteranno i movimenti di truppe e blindati sul terreno. Qualche analista non esclude neppure un nuovo tentativo di conquistare Kiev.
Alla cruciale domanda sulla finalità ultima di questa guerra nel cuore dell’Europa gli Stati Uniti hanno già dato una risposta con una scelta di campo politica, che ha un inevitabile corollario militare. Secondo quanto ha rivelato il <CF2002>New York Times</CF> qualche giorno fa, la Casa Bianca ha “autorizzato” l’Ucraina a effettuare attacchi alla Crimea, il “santuario della Russia”, dove sono ammassati migliaia di soldati e installate numerose basi militari. Apparteneva all’Ucraina, la Russia l’ha occupata (nel 2014, nell’indifferenza dell’Occidente), l’Ucraina ha il diritto di riprendersela: questa, secondo le fonti del quotidiano, è la nuova posizione dell’amministrazione americana.
La visita a Kiev di William Burns, il direttore della Cia al quale Biden affida le missioni più delicate, è la conferma di quale sia l’opzione americana di fronte all’inevitabile “escalation”, che preclude ogni ipotesi di negoziato e anche di armistizio in stile coreano. Gli Stati Uniti hanno spesso lamentato di non essere messi sufficientemente al corrente dagli ucraini delle loro strategie militari. È facilmente ipotizzabile che Burns abbia chiesto a Zelensky maggiore coordinamento in vista delle prossime cruciali settimane.
In questo scenario la visita del segretario di Stato Antony Blinken a Pechino, prevista per l’inizio di febbraio, può essere un’altra mossa in funzione del quadro bellico ucraino. Era stata concordata da Biden e Xi Jinping come prosecuzione del loro primo incontro di persona al vertice G20 di Bali. La tempestica, però, dà al viaggio di Blinken un significato preciso: tentare di dividere la Russia dalla Cina non solo in termini di aiuti militari, ma anche di interessi economici. Se la tenaglia si chiudesse, l’isolamento della Russia, descritto da Trenin nel suo articolo, sarebbe totale e aprirebbe per il Cremlino scenari drammatici anche nei suoi già complicati rapporti con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia, diventate Stati indipendenti. A quel punto, forse, a Putin converrebbe sedersi a un tavolo e negoziare, anziché continuare a sognare di riunire l’Ucraina alla Santa Madre Russia.
Ramstein, il rischio di un’escalation nella guerra
Paolo Garimberti La Repubblica 21 gennaio 2023
Ramstein, il rischio di un’escalation nella guerra
Il vertice in Germania fa prevedere che le ostilità saranno ancora lunghe
All’undicesimo mese di guerra il segnale che giunge dalla riunione dei Paesi sostenitori di Zelensky, nella base americana di Ramstein, è che i combattimenti in Ucraina non finiranno tanto presto. Anzi, entrambe le parti si preparano a un’“escalation”, che potrebbe scattare poco dopo il primo anniversario dell’invasione russa. E questa previsione interpella gli alleati del governo di Kiev perché impone un salto di qualità degli aiuti militari, al quale non tutti sono politicamente preparati e disponibili, a partire dai riluttanti tedeschi, che hanno cambiato il ministro della Difesa, ma non la linea di una prudenza che fa infuriare altri membri della Nato, prigionieri del ricatto di Berlino sui carri armati Leopard.
La questione della fornitura di carri armati all’esercito ucraino, il grande tabù di questi primi undici mesi che sta cedendo di fronte all’ineluttabilità che la guerra vada avanti per molti mesi (se non anni) ancora, è sintomatica degli umori che dividono la coalizione e che serpeggiavano ieri nei corridoi di Ramstein. Perché, al di là degli aspetti tecnici relativi ai problemi dell’addestramento o alla complessità della gestione e della manuntezione degli Abrams americani o dei Leopard tedeschi, la vera domanda di fondo, che non può più essere elusa con giochi lessicali, è: aiutare l’Ucraina solo a difendersi o anche a offendere, per riconquistare la sua integrità territoriale e quindi, di fatto, a vincere la guerra?
E il timore di quale possa essere la risposta comincia a insinuarsi nell’apparente sicurezza da vetero superpotenza finora ostentata dal Cremlino. La minaccia arrivata dall’ex presidente Dmitrij Medvedev, ormai assurto al ruolo di propagandista capo degli “ultras” di Putin, indica che la Russia comincia a pensare di non poter vincere questa guerra, o addirittura di poterla perdere: “La sconfitta di una potenza nucleare in una guerra convenzionale potrebbe provocare una guerra nucleare”, ha ammonito Medvedev. Il senso di isolamento, che comincia ad attanagliare i vertici russi, è riflesso in un articolo di Dmitrij Trenin, analista militare molto quotato del Carnegie Center di Mosca (ora chiuso). “Per la prima volta nella storia — ha scritto — la Russia non ha un solo alleato in Occidente. Il grado di coesione dei Paesi dove si parla inglese, in Europa e in Asia, alleati degli Stati Uniti, ha raggiunto livelli mai visti”.
Con il suo acuto senso della comunicazione, Zelensky ha segnalato il momento di svolta di questo undicesimo mese di guerra avvertendo in videoconferenza i Paesi sostenitori riuniti a Ramstein che “il tempo è un’arma della Russia”. Nel giro di sei-otto settimane, dopo una poderosa iniezione di nuovi coscritti (fino a quasi due milioni di uomini in totale, secondo alcune stime) e di nuovi mezzi, che è in corso in questa fase, la Russia potrebbe lanciare una grande offensiva: a cavallo del primo anniversario dell’“operazione militare” speciale, quando i primi climi primaverili faciliteranno i movimenti di truppe e blindati sul terreno. Qualche analista non esclude neppure un nuovo tentativo di conquistare Kiev.
Alla cruciale domanda sulla finalità ultima di questa guerra nel cuore dell’Europa gli Stati Uniti hanno già dato una risposta con una scelta di campo politica, che ha un inevitabile corollario militare. Secondo quanto ha rivelato il <CF2002>New York Times</CF> qualche giorno fa, la Casa Bianca ha “autorizzato” l’Ucraina a effettuare attacchi alla Crimea, il “santuario della Russia”, dove sono ammassati migliaia di soldati e installate numerose basi militari. Apparteneva all’Ucraina, la Russia l’ha occupata (nel 2014, nell’indifferenza dell’Occidente), l’Ucraina ha il diritto di riprendersela: questa, secondo le fonti del quotidiano, è la nuova posizione dell’amministrazione americana.
La visita a Kiev di William Burns, il direttore della Cia al quale Biden affida le missioni più delicate, è la conferma di quale sia l’opzione americana di fronte all’inevitabile “escalation”, che preclude ogni ipotesi di negoziato e anche di armistizio in stile coreano. Gli Stati Uniti hanno spesso lamentato di non essere messi sufficientemente al corrente dagli ucraini delle loro strategie militari. È facilmente ipotizzabile che Burns abbia chiesto a Zelensky maggiore coordinamento in vista delle prossime cruciali settimane.
In questo scenario la visita del segretario di Stato Antony Blinken a Pechino, prevista per l’inizio di febbraio, può essere un’altra mossa in funzione del quadro bellico ucraino. Era stata concordata da Biden e Xi Jinping come prosecuzione del loro primo incontro di persona al vertice G20 di Bali. La tempestica, però, dà al viaggio di Blinken un significato preciso: tentare di dividere la Russia dalla Cina non solo in termini di aiuti militari, ma anche di interessi economici. Se la tenaglia si chiudesse, l’isolamento della Russia, descritto da Trenin nel suo articolo, sarebbe totale e aprirebbe per il Cremlino scenari drammatici anche nei suoi già complicati rapporti con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia, diventate Stati indipendenti. A quel punto, forse, a Putin converrebbe sedersi a un tavolo e negoziare, anziché continuare a sognare di riunire l’Ucraina alla Santa Madre Russia.