The White Lotus: la miserabile vita dei ricchi e di chi ai ricchi si vende

Alessia Zappa Micromega 11 Gennaio 2023
The White Lotus: la miserabile vita dei ricchi e di chi ai ricchi si vende
La miniserie diretta da Mike White ha vinto il Golden Globe con la sua cinica fotografia di rapporti umani mercificati, nella cornice di una Sicilia e di un’Italia ridotte alla stregua di villaggio turistico.


The White Lotus: Sicilia, la seconda stagione della serie HBO ideata da Mike White – autore della commedia capolavoro School of Rock con Jack Black – e trasmessa in Italia da Sky, ha vinto il Golden Globe come miglior miniserie ieri sera a Los Angeles. Un premio è andato anche a una delle protagoniste, la caratterista Jennifer Coolidge, unico personaggio ricorrente in entrambe le stagioni della serie, la prima ambientata alle Hawaii e questa, che si svolge in gran parte a Taormina.
The White Lotus – Sicilia non è solo una serie americana in Italia, è una serie americana in italiano per una buona metà. Quasi metà degli attori protagonisti sono italiani – spicca Sabrina Impacciatore, talentuosa cinquantenne romana che calca i palchi e i set da una vita e sta ora vivendo il suo american dream grazie alla notorietà portata dalla serie – e parlano fra loro in italiano, un’operazione linguistica di grande interesse che forse risponde anche all’appeal della nostra lingua all’estero: una delle più studiate al mondo e particolarmente negli Stati Uniti. Italiana è anche quasi tutta la colonna sonora che attinge a pezzi più moderni e più classici, fra cui numerose incursioni del tutto decontestualizzate di canzoni di Fabrizio De André, che con la Sicilia ben poco hanno a che fare e con il mood grottesco della serie ancora meno.
he White Lotus è infatti una serie che rientra a pieno titolo in quel genere ormai da qualche anno florido e di successo riassumibile con il titolo “La miserabile vita dei ricchi”. Filone già esaltato da pluripremiati film come il sudcoreano Parasite, vincitore del premio Oscar al miglior film nel 2020, e il franco-svedese Triangle of Sadness, vincitore della Palma d’Oro come miglior film nel 2022. Storie di ricchi e poveri, di poveri che desiderano vivere da ricchi e di ricchi che non sanno di che cosa riempire la loro vita di ricchi, ansimano per circondarsi di bellezza e invece finiscono per ritrovarsi nella più lurida bruttezza e miseria.
La miserabile vita dei ricchi è anche la miserabile vita di quelli che ai ricchi si vendono, e il concetto torna contundente in The White Lotus. Il titolo della serie riprende il nome di una catena di resort extra lusso e delle storie di alcuni loro ospiti, dipendenti e avventurieri in cerca di fortuna. Se nella prima stagione, come già detto, si trattava dello scenario mozzafiato delle Hawaii, anche in questa seconda siamo in un ambiente vulcanico dal panorama strabiliante: la costa orientale della Sicilia, dove sorge il resort guidato dall’hotel manager Valentina – il personaggio di Sabrina Impacciatore – e dove si ritrovano in vacanza famiglie di maschi italoamericani alla ricerca delle radici, startupper californiani in coppia, ereditiere disperate con giovani assistenti personali al seguito, e un indotto di personaggi e personagge in cerca di fortuna, intente a trovarla offrendo compagnia ai ricchi. Sesso, bellezza, arte, lusso e una simulazione dei sentimenti sono la cornice “esperienziale”, come si dice oggi nel linguaggio del marketing, che alcuni offrono e altri ricevono: ma nessuno ne gode autenticamente. Lo startupper con giovane moglie al seguito che non riesce a eccitarsi se non attraverso il porno; l’amico anche lui startupper con l’altra giovane moglie che vivono in una silenziosamente concordata menzogna reciproca, in cui giochi psicologici e tradimenti si fanno e non si dicono, eppur si sanno; la famiglia di patriarchi italoamericani in cerca delle proprie radici familiari che si circonda di donne stupende da cui ricavare surrogati di piacere e sentimento attraverso i soldi, ma saggia un fallimento dopo l’altro nelle relazioni autentiche con il sesso femminile – suggellato da un epico incontro con un trio di matriarche siciliane; l’ereditiera affamata d’amore che non sa distinguere fra amicizia e servitù, interpretata alla perfezione da Jennifer Coolidge; e non va meglio a chi nel resort lavora, come Valentina, che non riesce a costruire relazioni autentiche con nessuno né tantomeno con sé stessa, e sebbene circondata di lusso da mane a sera, nel tempo libero si rassegna a mangiare un misero tramezzino, seduta fra i gatti sul bordo di un marciapiede.

Gli unici personaggi che escono vincenti alla fine di una serie di mirabolanti avventure sono quelli che hanno accettato le regole del gioco: vendersi per andare avanti. Prostitute e prostituti che accettano con più o meno allegria e serenità di fare di sé il prezzo da pagare, che accettano l’idea dei sentimenti come una forma di transazione fra le altre. L’unica autenticità, sembra dirci la serie, sta nel prezzo che diamo alle cose, sta nel vendere e nel comprare, accettando l’idea che al mondo esistono i ricchi e i poveri, e che la missione dei poveri, proprio come in Parasite e in Triangle of Sadness, è quella di aspirare alla vita dei ricchi: acquisire il loro stesso potere, diventare come loro, usarli per arrivare con un percorso più lungo dove loro sono piazzati per via di una buona sorte che scambiano con il merito. Chi non si presta a questo gioco, chi li contrasta sul piano etico, chi li sfida ambendo a non diventare come loro, è destinato a soccombere.

E qui interviene, nella seconda stagione della serie, una particolarità della rappresentazione dell’Italia che può far riflettere. Se infatti alle Hawaii, in uno scenario esplicitamente segnato dal colonialismo americano, sono diversi i personaggi che in modo più o meno disperato cercano di smarcarsi dall’imperialismo dei comportamenti dei loro capricciosi ospiti, per affermare a modo loro indipendenza e dignità – con esiti grotteschi ma in grado di attirare simpatia, come nel caso del protagonista Armond che ingaggia una sua guerra personale contro le pretese arroganti di uno degli ospiti – nella serie siciliana non ci prova più nessuno. L’accettazione dell’ineluttabilità della vendita di sé è anzi l’unico sprazzo di gioia e spensieratezza che ci viene rappresentato: Lucia, la giovane escort siciliana che dà il via a una serie di triangolazioni fra nonno, padre e figlio del clan dei Di Grasso, estorcendogli una fortuna, e la sua amica Mia, prostituta riluttante ma non troppo, sono l’incarnazione di un destino che sembra quello della Sicilia tutta, e dell’Italia nel suo assieme: trarre il massimo vantaggio dall’accettare di essere nient’altro che un grande villaggio turistico per ricchi. Trarre il massimo vantaggio dal concedere la vista e la fruizione delle sue bellezze a chi ha i soldi per pagare e rassegnarsi alla predazione con allegria. Se il colonialismo dei ricchi alle Hawaii era fatto oggetto di una critica sociale parodica nel mostrarne l’ipocrisia quando sono gli stessi figli dei bianchi a farsene portavoce, il colonialismo dei ricchi nei confronti della Sicilia non è mai neanche suggerito. Eppure la serie non parla che di questo: di come una terra come l’Italia, così bella, così unica, per la miserabile vita dei ricchi non acquisisca altro status che quello di grande villaggio turistico con i suoi servizi di cui usufruire, la sua “dolce vita” da imitare goffamente, un parco delle attrazioni dal richiamo cinematografico, una grande Cinecittà come si nota nelle tante citazioni-omaggio che la serie fa al cinema italiano o ai classici come Il Padrino; ma in cui vita autentica, fatta di relazioni autentiche all’interno di una società autentica non c’è e non ci può essere.

Il resort in The White Lotus diventa simbolo dell’approccio della classe dominante al pianeta tutto, alla vita tutta. Non solo consumistico ma disperatamente finto, un grande set in cui trionfa chi recita meglio, proprio come ai Golden Globe. E chi non sa recitare, in un modo o nell’altro finisce a gambe all’aria.

Per noi italiani che siamo parte del mondo ricco è interessante prendere consapevolezza che anche il mondo ricco non è tutto uguale, e anche nel mondo ricco non siamo affatto tutti uguali. Che un certo sguardo coloniale che va dal nord del mondo bianco e benestante – americano in particolare – verso il sud comprende non soltanto le colonie caraibiche, indopacifiche, asiatiche eccetera, ma anche l’Europa meridionale. Che comprende anche i giovani bianchi delle generazioni più giovani, come Portia e l’hooligan Jack, quando non sono ricchi come il loro coetaneo Albie, che comprende chi lavora contrapposto a chi si vende, e che comprende irrimediabilmente la geografia, la storia, l’arte e la bellezza di un Paese come il nostro, percepito come privo di personalità e dignità proprie, privo di confini che il denaro non possa ritenersi in diritto di oltrepassare. Fuck or be fucked, se volessimo sintetizzare con un’espressione inglese ciò che tanti personaggi mettono diligentemente all’opera, è il motto della serie. In un mondo irrimediabilmente fucked, si può solo o vendersi o comprare. E non ha senso sperare di trovare salvezza in un’idea di amore ormai fuori dal mondo: in questo senso il cinismo di Mike White, gay a sua volta, anche in relazione al mondo omosessuale e al crollo di qualsiasi illusione che esso possa rappresentare un’umanità che ama di più o con più sincerità, è brutale ma colpisce nel segno: l’amore è un sentimento del tutto superato, fa parte della recita a soggetto. Ciò che conta alla fine delle ferie è cosa puoi comprare, cosa puoi vendere.

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