La Crimea come prossimo obiettivo

Fabrizio Tonello il Manifesto 22 gennaio 2023
La Crimea come prossimo obiettivo
L’azzardo di Biden e la lezione della Storia

 

Dichiarazioni roboanti a parte, lo scopo della riunione della Nato a Ramstein, l’altroieri, era quello di permettere all’Ucraina di lanciare una controffensiva di primavera diretta verso la Crimea. L’amministrazione Biden ha deciso che si deve aprire una nuova fase della guerra e chiede agli alleati armi, munizioni e denaro a questo scopo. Le discussioni con il governo tedesco sui carri armati Leopard fanno parte di questa strategia.

Come ha detto Lucio Caracciolo su Limes, «La guerra che si combatte in Ucraina è, fra le altre, anche una guerra tra Stati uniti e Russia. Per Washington è importante indebolire la Russia, ma non fino al punto di disgregarla, perché perderebbe la giustificazione principale per il mantenimento dell’impero europeo dell’America». Può essere che sia così ma Washington sta giocando col fuoco: un conflitto sul suolo russo rafforzerebbe enormemente la posizione di Putin, che da invasore si trasformerebbe in difensore della patria, erede dei soldati che sconfissero gli invasori tedeschi nella seconda Guerra mondiale.

E l’Italia in tutto questo? Forse è utile ricapitolare cosa successe 170 anni fa, nel 1853, quando Turchia, Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Russia e invasero la Crimea. Anche allora gli italiani erano ansiosi di accodarsi: «Io sono certo, signori, che gli allori che i nostri soldati acquisteranno nelle regioni dell’Oriente gioveranno più per le sorti future d’Italia di quello che non abbiano fatto tutti coloro che hanno creduto operarne la rigenerazione con declamazioni e con scritti» diceva Cavour al parlamento del regno di Sardegna il 5 febbraio 1855. L’occasione era la partecipazione italiana alla guerra: il parlamento approvò, i bersaglieri partirono e «il 16 agosto il corpo di spedizione piemontese ottiene una significativa vittoria sul fiume Cernaia», o almeno così scrivono i manuali scolastici ancora oggi.

In realtà, gli italiani erano circa un quarto delle truppe presenti nei pressi del ponte di Traktir sul fiume Cernaia, dove il grosso delle forze era composto di francesi, la cui artiglieria fece strage dei soldati russi comandati dal generale Pavel Liprandi che andavano supinamente al massacro cercando di conquistare le colline Fedjukhin dov’erano trincerati i soldati di Napoleone III. Le truppe dello zar persero il generale Read, gli italiani il generale Gabrielli di Montevecchio.

Il vero nemico, per tutto il corpo di spedizione alleato fu il colera: il 7 giugno 1855 era morto il generale Alessandro Lamarmora il 29 giugno Lord Raglan, il comandante delle truppe inglesi.
In settembre cadde Sebastopoli (di nuovo, furono i francesi a conquistare il forte Malakoff, perno della difesa della città) e, nel 1856, fu firmato a Parigi il trattato di pace. L’importante, allora come ora, era “esserci”: nel 1853 Cavour offrì 15.000 soldati, oggi il ministro Crosetto assicura che «l’Italia farà la sua parte» mandando armi e munizioni.

Il punto è che la Crimea non sta in Oriente, come diceva Cavour, e neppure in Ucraina: sta in Russia dal 1784 e il suo passaggio dalla Federazione russa alla Repubblica sovietica ucraina, nel 1954, fu un’operazione interna ai giochi di potere del Cremlino, proposta da Nikita Krusciov che aveva fatto tutta la sua carriera militare e politica in Ucraina.

All’interno dell’Unione Sovietica, inoltre, non aveva alcuna importanza se dal punto di vista amministrativo Sebastopoli stava insieme a Odessa e Kiev o insieme a Rostov sul Don e Mosca: tutto si decideva all’interno del Politburo. E’ vero che la dissoluzione dell’URSS, nel 1991, lasciò la sfortunata penisola all’interno dei confini ucraini ma la sua popolazione parla russo e guarda a Mosca: questa è la ragione per cui nel 2014 Putin potè occupare la Crimea senza sparare un colpo.

Autorizzare Zelenski a portare il conflitto in Crimea significa quindi fare di Putin il leader di una nuova Grande guerra patriottica, come quella 1941-1945. Senza contare che l’idea americana di un abile dosaggio dell’escalation è una strategia sciagurata che purtroppo piace ai presidenti democratici fin dai tempi delle guerre in Corea e Vietnam. Qualcuno ricorda che Mosca conserva 6.000 testate nucleari nei suoi arsenali?

 

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