Meloni, la mafia e la retrotopia dei garantisti alle vongole

Massimo Giannini La Stampa 22 gennaio 2023
Meloni, la mafia e la retrotopia dei garantisti alle vongole
Aveva ragione Bauman: la civiltà occidentale soffre di “retrotopia”. Ha invertito la rotta e naviga a ritroso. Il futuro è un posto troppo incerto e inaffidabile, mentre il passato è uno spazio in cui le speranze non sono state ancora screditate.

In Italia il fenomeno è persino più grave. La nostra retrotopia non è solo nostalgia: è anche il nastro della Storia che si riavvolge in continuazione, tra vecchi miti che vanno e vecchi fantasmi che tornano. Basta guardare i telegiornali, i siti e le prime pagine dei giornali di martedì scorso, per sentirsi risucchiati nella macchina del tempo, a fare i conti con un Paese spesso prigioniero di un passato che non passa. Matteo Messina Denaro che viene arrestato, Gina Lollobrigida che muore.

L’Ultimo Padrino da una parte, l’Ultima Diva dall’altra. Stragi coppola e lupara di qua, pane amore e fantasia di là. L’Italia inchiodata ai suoi rituali e ai suoi clichè, a fare i conti con i crimini e i misteri di sempre, e a cercare conforto nella solita Grande Bellezza. Naturalmente e fortunatamente siamo molto di più di tutto questo. Ma l’impressione è che non si riesca mai a voltare pagina davvero, sospesi come siamo tra l’eterno ritorno dei peggiori e l’eterno riposo dei migliori.

A questa sensazione sgradevolmente passatista si aggiunge adesso un altro classico della Seconda Repubblica: lo scontro tra politica e magistratura. Un conflitto che ci portiamo dietro dai tempi di Tangentopoli e Mani Pulite. Un fiume carsico che ha rotto gli argini nel ventennio berlusconiano. Che si era inabissato dall’estate del 2013, quando il Cavaliere fu condannato in via definitiva ed “espulso” dal Senato.

E che adesso, con le destre nuovamente al potere, riemerge in tutta la sua truce virulenza. Perché? A chi giova riaprire le ostilità in questo momento, destabilizzando un esecutivo nato solo da tre mesi e rimettendo nel mirino un potere dello Stato che insieme alle forze dell’ordine ha appena dato prova della sua competenza e della sua efficienza?

La domanda va rivolta alla presidente del Consiglio. Il giorno stesso dell’arresto di Messina Denaro, Giorgia Meloni è corsa a Palermo a festeggiare. E ha fatto bene, perché siamo tutti felici che finalmente sia finito nelle patrie galere un mafioso assassino, responsabile delle mattanze di Capaci e di Via D’Amelio e degli attentati del ’93 a Roma, Firenze e Milano.

Sorvoliamo pure su qualche scivolata della premier, che ha nuovamente ceduto al complesso dell’underdog, e accusando un’imprecisata “opposizione” di non voler gioire dell’arresto del super boss siciliano. Come se non fosse possibile esultare per questo successo dello Stato, ma al tempo stesso chiedersi perché ci sono voluti trent’anni a incastrare “u Siccu”, nascosto non nelle grotte afgane di Tora Bora, come Bin Laden, ma in un paesello di undicimila anime a un tiro di schioppo da Trapani. E come se fosse vilipendio per le istituzioni compiacersi per l’esito felice della cosiddetta “Operazione Tramonto”, ma al tempo stesso ricordare tutti i segreti mai svelati sulle coperture di Cosa Nostra, dall’agenda rossa di Borsellino al papiello di Riina, dalle relazioni pericolose del generale Mori ai mancati arresti di Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano.

Lo spirito di rivalsa meloniano lo tradisce un titolo di Libero: “La sinistra rosica”. È inventato, sia perché nessuno ha rosicato sia perché la sinistra non ha più la forza di fare neanche quello. Ma è utile a svelare la cifra politico-culturale dei nuovi patrioti, sempre a caccia di un nemico anche quando non esiste. Arrivati al governo, si comportano come quando sfilavano nei cortei del Fronte della Gioventù, “reietti” dell’arco costituzionale.

Detto questo, il vero problema è un altro: si chiama Carlo Nordio. All’indomani della cattura del “Vice Capo dei Capi”, resa possibile solo grazie agli ascolti telefonici e ambientali (come hanno confermato tutti i magistrati coinvolti, dal capo della Procura di Palermo De Lucia al Procuratore generale Lia Sava), il Guardasigilli rilancia la sua battaglia contro le procure. In Parlamento parla addirittura di “rivoluzione copernicana contro l’abuso delle intercettazioni”, e conclude con la solita retorica un po’ fascistoide ma coerente con lo Zeitgeist: “Andremo avanti fino in fondo, non vacilleremo, non esiteremo”.

Prendiamo atto della successiva precisazione: il giro di vite sulle intercettazioni non riguarderà i reati di mafia e di terrorismo. Bontà sua, ci mancava solo il contrario. Resta però una gigantesca mucca nel corridoio (per dirla in bersanese) che Nordio finge di non vedere. Spesso i traffici della criminalità organizzata vengono scoperti grazie alle indagini sui cosiddetti reati “spia” o “satelliti”: corruzione, abuso d’ufficio, frode, turbativa d’asta. Se si vieta le intercettazioni per questi reati, diventa più difficile o addirittura impossibile scoprire quelli di mafia.

A Nordio, in questi giorni, hanno spiegato l’ovvio tutti i Pm d’Italia. Quelli in servizio, dal capo della Procura Nazionale Antimafia Giovanni Melillo al Capo della Procura di Roma Lo Voi. Quelli passati ad altri incarichi, da Nino Di Matteo a Alfonso Sabella. Quelli in pensione, da Giancarlo Caselli a Giuseppe Ayala. Niente da fare. Il Guardasigilli, come ha promesso, non vacilla, non esita.

È un guaio per il Paese. È un guaio per il governo. C’è da chiedersi, come nel caso di Ignazio Larussa presidente del Senato, “se questo è un ministro”. Persino Salvini, che tra Nave Diciotti e milioni spariti della Lega non è amico delle toghe, capisce che la guerra con la magistratura fa solo danni. Ma Nordio rilancia. Smentisce di volersi dimettere, e assicura di essere “in perfetta sintonia con la premier”.

A questo punto la domanda è d’obbligo. Davvero Meloni è d’accordo con le sortite sguaiate del Guardasigilli e considera la sua sgangherata “pseudo-riforma” delle intercettazioni una priorità del Paese? Non riesco a crederlo. Ho riletto il suo discorso programmatico del 25 ottobre alle Camere. Non ho trovato traccia della parola “intercettazioni”. Ho letto invece che Meloni ha cominciato “a fare politica a 15 anni, il giorno dopo la strage mafiosa di Via D’Amelio, spinta dall’idea che la rabbia e l’indignazione andassero tradotte in impegno civico”. Ho letto che intende affrontare “il cancro mafioso a testa alta”. E ho letto che, per una “giustizia che funzioni”, gli obiettivi da raggiungere sono “una effettiva parità tra accusa e difesa”, “una durata ragionevole dei processi”, “il principio fondamentale della certezza della pena”, un “nuovo piano carceri”, la fine delle “logiche correntizie che minano la credibilità della magistratura”. Questo è tutto.

Dunque, perché adesso Nordio cambia “l’Agenda”? All’improvviso, senza una ragione plausibile, ripartono polemiche astruse sulla sicurezza, in un caos pan-penalistico in cui tutte le vacche sono nere. Il ministro degli Interni Piantedosi dichiara in tv che le mafie sono sempre più attive nel riciclaggio del denaro sporco: peccato che nella legge di bilancio il governo gli faccia un regalino, alzando il tetto al contante a 5 mila euro. Si inneggia al “carcere duro”, mescolando il 41 bis e l’ergastolo ostativo: peccato che il governo abbia preso in giro la Consulta, infilando nel decreto contro i rave-party una sfilza di norme-catenaccio che rendono impossibile qualunque forma di redenzione del reo.

Le intercettazioni tornano ad essere “un’emergenza nazionale”, per impedire “la gogna mediatica”. Nordio parla da Marchese del Grillo, come scrive Caselli. O da uomo della strada, non certo da ex pubblico ministero. Non sa che il decreto legislativo Gentiloni-Orlando del 2017 ha già introdotto vincoli rigorosi sulla pubblicazione delle intercettazioni. Non sa che da allora esiste il cosiddetto “archivio riservato”, nel quale i giudici hanno l’obbligo di depositare quelle irrilevanti, quelle non utilizzabili ai fini delle indagini e quelle che riguardano terzi non coinvolti. Non sa che tutte le altre che talvolta escono sulla stampa sono atti pubblici, depositati nelle cancellerie a garanzia delle parti del processo.

Come se non bastasse, in questa crociata da “garantisti alle vongole” si inserisce un vice-Nordio, il Fratello d’Italia Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, che annuncia un provvedimento per restringere la pubblicazione delle intercettazioni sui media. C’è voglia di un’altra legge-bavaglio per i giornalisti, azzardo già fallito ai tempi del secondo governo Prodi del 2007, ministro Clemente Mastella, e del quarto governo Berlusconi del 2011, ministro Angelino Alfano. Tentativi goffi, ma pericolosi, di comprimere due diritti garantiti dalla Costituzione: quello dei cittadini ad essere informati, quello dei giornalisti di informare. Vecchi mezzucci illiberali di una stagione lontana e mefitica, quando il potere sentiva il bisogno di proteggere se stesso rifugiandosi nell’opacità, e usando la privacy dei cittadini come una foglia di fico. Non posso e non voglio credere che Giorgia Meloni, nemica della mafia e amica della legalità, ci voglia regalare anche questa “retrotopia” anti-democratica.

 

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