Giovanna Casadio La Repubblica 22 gennaio 2023
Nel Pd la battaglia per cambiare il nome accende lo scontro tra sinistra e riformisti
Il grande ritorno dei bersaniani e la proposta: referendum tra gli iscritti per la rifondazione dem
Rifondare il Pd, fino magari a cambiarne anche il nome. Ridiscutere tutto, alla radice.
O, al contrario, restare ancorati alle basi poste al Lingotto, nel 2007, non ritoccare simboli e valori fondativi. È la discussione che emerge nell’Assemblea costituente, con cui si chiude l’èra di Enrico Letta e si avvia il grande ritorno dei bersaniani, dopo la scissione dal Pd di Renzi. Un fatto politico, quest’ultimo, che per i sostenitori della rifondazione dà corpo all’ipotesi che tutto possa rinnovarsi, nome incluso.
Roberto Speranza, leader di Articolo Uno, afferma: “Siamo qui per costruire una cosa nuova, che ricucia lo strappo”. Un nome nuovo, che tenga dentro la parola lavoro, come proposto dal sindaco di Bologna, Matteo Lepore, sarebbe in questo senso buona cosa. Magari convincerebbe anche Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema – i padri scissionisti, grandi assenti – a impegnarsi nel processo costituente.
Intanto i quattro candidati alla segreteria – Stefano Bonaccini, il favorito, Elly Schlein, Gianni Cuperlo e Paola De Micheli – incrociano le spade. È gioco di fioretto, perché è tempo di lasciti, a cominciare dal Manifesto dei valori che disegna un partito meno liberale e più socialdemocratico. Approvato con 450 voti a favore, 18 contrari e 22 astenuti.
Malumori evidenti, anche se la resa dei conti tra riformisti e sinistra dem è rinviata alla prossima volta, quando un segretario pienamente legittimato darà la linea e risponderà infine alla domanda: il brand del Pd funziona ancora? Letta non si pronuncia. Anzi, dal Nazareno, la sede dem, fanno sapere che la notizia secondo la quale avrebbe detto stop, teniamoci nome e simbolo, è un fake.
A decidere dovrebbero essere eventualmente i tesserati al partito. Schlein ha già osservato che “la questione del nome può essere sottoposta agli iscritti, se ne può discutere”. Senza offuscare il dibattito congressuale sui programmi, però. “Ora occupiamoci dei temi che riguardano i cittadini: lavoro, clima, lotta alle disuguaglianze”. Ma è Peppe Provenzano, suo supporter, a rivendicare la battaglia e insistere che sul nome nuovo devono potersi pronunciare gli iscritti: “Non possiamo decidere in dieci.
Mi ha colpito la reazione stizzita di alcuni candidati che pur dicono di voler dare più voce agli iscritti o addirittura propongono un partito laburista”. Non è solo nominalismo, del resto. È il segno del rinnovamento profondo di un Pd che Schlein così descrive, dal palco: “Non si può essere tutto e il contrario di tutto, perché si rischia di non rappresentare più nessuno”.
Una stoccata, alla quale Bonaccini risponde con una sostanziale chiusura: “Non facciamoci più trovare intrappolati in discussioni incomprensibili come quelle sul nome e sul simbolo del Pd. I cittadini ci chiedono di cambiare politiche e tornare a parlare con la base. Non ho tabù sul nome, né sul simbolo, ma trovo surreale discutere di nomi e cognomi e non di contenuti”. Resti agli atti, aggiunge Bonaccini: “Posto che a me il nome e il simbolo del Pd, come il manifesto dei valori del 2007, piacciono e li trovo ancora attuali, voglio parlare con gli iscritti di linea politica”.
Pure Cuperlo, che fa un discorso appassionato e orgoglioso, ritiene importante “rivendicare la natura del nostro nome”. De Micheli sbotta: “Cambiare nome? Ma no! Non se ne parla”. Il tema però esiste. È di forma e di sostanza, rivendica da sinistra Andrea Orlando. Serve a puntellare l’identità del partito: perciò l’idea di inserire la parola “lavoro”.
L’Auditorium dell’Antonianum – luogo dove (nella saletta accanto a quella dell’assemblea di ieri) nel 2012 chiuse i conti la Margherita di Rutelli dopo il “caso Lusi” – è palcoscenico di un rito di passaggio. Non ancora un finale di partita. Dopo le primarie, il Pd continuerà la salita impervia per ritrovare una connessione sentimentale con il Paese e un rilancio che gli restituisca consensi. Bonaccini mette le mani avanti: “Agli amici di Articolo Uno dico “Bentornati”, tuttavia se fossero gli unici a tornare sarebbe poca cosa.
La Costituente dobbiamo aprirla dopo, tenerla aperta per richiamare milioni di persone che se ne sono andati o hanno votato a destra. Io ne conosco nella mia regione”. Anche quelli bisogna andare a prendere, invita il governatore dell’Emilia Romagna. I riformisti sono contenti perché non si è buttato a mare il Manifesto del Lingotto, quello di Scoppola e Reichlin, ma con le modifiche chieste a gran voce dalla sinistra del partito si è aggiunto un pezzo, al quale peraltro si rimetterà mano. È un Pd in equilibrio, tutto ancora è in discussione.