Jas Gawronski racconta da vicino Gianni Agnelli

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 22 gennaio 2023
Jas Gawronski: «Dissero ad Agnelli della morte del figlio; so che era disperato, ma non pianse»
Vent’anni fa la morte dell’Avvocato. «Una sola donna lo ha veramente coinvolto, non dirò mai chi. Al primo loro incontro, Malagò disse: “Avvoca’, diamoci del tu”. L’unica persona alla quale riconobbe supremazia fu Cuccia»

 

Jas Gawronski, quando vide Gianni Agnelli per la prima volta?
«Avevo vent’anni, era il 1957. Mi invitò a un party a Sestriere, con molta altra gente. Lo incuriosiva che vivessi in Polonia».

Perché?
«Era affascinato dai comunisti. Li riteneva uomini di un’altra categoria: spietati. Ed era interessato alla durezza della vita, alla sofferenza delle persone».

Quando lo rivide?
«Mi invitò alla Leopolda, la villa che aveva a Beaulieu, sopra Montecarlo. Il parco, la piscina, la vista indescrivibile: non avevo mai visto una casa così bella. Poi la vendette a un’americana».

Perché?
«La villa si chiamava così perché era appartenuta a Leopoldo del Belgio, padrone del Congo. Una residenza reale, appunto. I tempi erano cambiati. Anche se la sua casa più bella era quella in Corsica, a Calvi, vicino alla grande base della Legione straniera».

Un’altra delle sue passioni.
«Attaccava sempre discorso con i legionari, che non sapevano chi fosse. Anche da quei soldati voleva sapere tutto della durezza della loro vita. Lo colpivano le loro camicie stirate alla perfezione, con le pences dietro: vanno a morire con la divisa in ordine, diceva».

Agnelli la guerra l’aveva fatta.
«Ma non ne parlava mai».

Come andò il ricevimento alla Leopolda?
«Io ho sempre girato in Volkswagen, ma quella volta arrivai con la mia fidanzata di allora su una Jaguar targata Varsavia: un dettaglio che colpì l’Avvocato. Poi dovetti scendere a Montecarlo per un appuntamento. Al ritorno, scoprii che Agnelli ci aveva un po’ provato con la mia ragazza…».

Un po’ provato?
«In modo evidente, ma elegante. Lei era più divertita che turbata».

Non un grande inizio, per l’amicizia di una vita. Cosa vi univa?
«Credo che intanto l’Avvocato avesse nei miei confronti un senso di colpa, o comunque di responsabilità: grazie al fascismo, suo nonno aveva portato via il giornale di Torino a mio nonno».

Alfredo Frassati, editore e direttore della Stampa, nominato da Giolitti ambasciatore a Berlino, dimissionario dopo la marcia su Roma. Com’era suo nonno?
«Uomo d’altri tempi, di poche parole. Agnelli diceva fosse un po’ tirchio; io rispondevo che mio nonno, a differenza del suo, non si era mai fatto fotografare in camicia nera. Ebbe due figli: Luciana, mia madre, vissuta 105 anni; e Piergiorgio, morto a 24 anni per una poliomelite fulminante contratta nelle case dei poveri che aiutava, beatificato da Giovanni Paolo II».

Quali politici stimava l’Avvocato?
«Era affascinato da Pannella. Volle conoscerlo. In lui non vedeva l’esibizionismo, ma la buona fede».

E i democristiani?
«Non ne parlava certo bene. In generale non aveva una buona opinione dei politici. E neppure dei giornalisti. Anche se frequentava quelli di successo: insieme andammo alla festa per i novant’anni di Montanelli».

E i comunisti?
«Li stimava di più, aveva un ottimo rapporto con Lama. Una volta invitò a cena Castro. Dovevo esserci anch’io; ma Fidel arrivò con il suo assistente, Robaina, futuro ministro degli Esteri; per non essere in tredici a tavola, l’Avvocato mi pregò di venire dopo il dessert».

Cosa la colpì di quella serata?
«Durante la vestizione, notai che Agnelli non le attribuiva alcun significato particolare. Io avevo appena intervistato Castro con grande emozione: da anticomunista di ferro, lo ritengo tuttora un gigante della storia, capace di tenere in scacco otto presidenti americani… L’Avvocato invece era imperturbabile».

Disse davvero che si innamorano soltanto le cameriere?
«Non l’ho mai sentita quella frase. Ma sì, la pensava così».

Che rapporto aveva con Marella?
«Mai visto un marito trattare la moglie con tanta cortesia, con tanta attenzione, badando a coinvolgerla nelle conversazioni, a chiedere sempre il suo parere. Forse anche per lenire quel senso di colpa, o comunque di responsabilità, che gli veniva dal non essere un marito fedele».

Agnelli ebbe donne tra le più belle del mondo. Possibile che non si sia mai innamorato di nessuna?
«Lo escludo. Certo dimenticare Anita Ekberg non era facile. Ma forse una sola l’ha davvero coinvolto».

Chi?
«Non lo dirò mai. Ma non era un’attrice».

Com’era davvero il rapporto con Romiti?
«Un conto era l’amicizia, un altro il lavoro. Romiti apparteneva alla seconda schiera. Lo divertiva la sua franchezza al limite del cinismo. Una volta mi raccontò una riunione. Mattioli, il direttore finanziario della Fiat, comincia serio: “Ci sono tre modi per affrontare la situazione. Il primo: ammettere la verità…”. E Romiti: “Mattioli, non diciamo sciocchezze”».

Romiti pensò davvero di diventare padrone della Fiat, d’intesa con Cuccia?
«Ci hanno pensato in tanti, e non ci è mai riuscito nessuno: la famiglia si è sempre rivelata più forte. E comunque non credo allo schema di Cuccia contro Agnelli».

Perché?
«Si stimavano moltissimo. Cuccia è forse l’unica persona a cui Agnelli riconoscesse una supremazia. Per il resto l’ho sempre visto confrontarsi alla pari con chiunque. Quando era segretario di Stato, era Kissinger a cercarlo per chiedergli consiglio, non viceversa. Aveva caldeggiato anche la possibilità che Agnelli diventasse ambasciatore a Washington».

Ci ha mai pensato seriamente?
«L’idea gli piaceva. Ma non poteva lasciare il suo posto».

E con Montezemolo com’era il rapporto?
«Luca era il figlio che l’Avvocato avrebbe voluto: intelligente, spiritoso. Scanzonato. Agnelli gli dava del tu, Montezemolo del lei. Un giorno gli propone di portargli a pranzo un amico molto simpatico».

Chi era?
«Malagò. Che dopo venti minuti, con il suo charme romano, dice: “Avvoca’, perché non ci diamo del tu?».

E Agnelli cosa rispose?
«Certo non avrebbe mai detto: no, diamoci del lei. Così Malagò dava del tu all’Avvocato; Montezemolo gli diede del lei sino alla morte».

Il figlio vero era Edoardo.
«Un intellettuale. Sensibile, intelligente: ma non capiva di non avere le qualità necessarie a guidare una grande azienda. Quando il padre decise di puntare su Giovannino, il primogenito di Umberto, ne soffrì moltissimo».

Lei era con l’Avvocato quando gli arrivò la notizia del suicidio del figlio.
«Non pianse. Non mostrava il dolore in pubblico. Ma era disperato. Nello stesso tempo, si sentiva come liberato da un peso».

E la figlia Margherita?
«Preferisco parlarne come pittrice. È davvero brava…».

Non può cavarsela così.
«Margherita è una donna simpatica e intelligente. Dovrebbe capire che la Fiat non era una multiproprietà che poteva essere frazionata tra otto figli. Occorreva un capo».

Com’era il rapporto tra John e il nonno?
«Agnelli lo scelse e lo formò. E mi pare che abbia fatto un buon lavoro. Oggi sento membri della famiglia criticare l’Avvocato. Ma nessuno osa criticare John».

E con il fratello Umberto?
«Lo amava e lo proteggeva; però gli rimproverava di raccomandare i suoi amici. Una cosa che l’Avvocato non faceva mai».

E le sorelle?
«Aveva rapporti affettuosi con tutte, ma solo con Suni era una relazione alla pari. Si riconosceva in lei; anche fisicamente. Come se fosse il suo alter ego femminile. Però bloccò il film tratto dal suo libro, Vestivamo alla marinara».

Perché?
«Perché non amava si parlasse di sé. Non per modestia; anzi, era un po’ presuntuoso; ma riservato. Ad esempio detestava essere fotografato. Spesso nel gruppo di amici c’era qualcuno con la macchina fotografica: lui lasciava fare per educazione, ma era seccato. Ricordo due sole passeggiate per Torino. Una volta, era il 1984, andammo insieme a votare alle Europee. La gente lo fermava per strada, lui era gentilissimo con tutti. Subito dopo però…».

Subito dopo?
«Sbuffava: che noia… In realtà, se non lo riconoscevano ci restava male. Ma con i suoi vestiti e i suoi tic, come l’orologio sul polsino, era difficile non riconoscerlo».

Cosa votò Agnelli nel 1984?
«Partito repubblicano, come sempre. Ero candidato e disse che mi aveva dato la preferenza; ma lo escludo».

Perché?
«Detestava scrivere. A maggior ragione un nome complicato come il mio».

Mi fa vedere l’autobiografia di Agnelli che lei custodisce?
«Eccola. L’autore è Roger Cohen, grande firma del New York Times».

Già nella prima pagina c’è una rivelazione: avrebbe dovuto esserci anche Gianni accanto a suo padre Edoardo, sull’idrovolante pilotato dall’asso Ferrari…
«…Invece il papà gli ordinò di restare a terra. E morì nell’ammaraggio di fronte a Genova, colpito alla testa dall’elica».

Qui Agnelli scrive che suo padre non amava il fascismo, ma godette dei privilegi del regime…
«Fermiamoci. Se l’Avvocato avesse voluto pubblicare il libro, l’avrebbe fatto. Ha prevalso, anche qui, la riservatezza».

Di Berlusconi cosa pensava?
«All’inizio lo divertiva, lo considerava un po’ una caricatura. Quando vinse le elezioni, però, lo prese molto sul serio. E poi era lusingato dal fatto che tenesse la sua foto sul comodino. Anche se i suoi leader di riferimento sono sempre stati altri».

Chi?
«Ugo La Malfa. E Spadolini. Nel 1994 seguimmo insieme l’elezione del presidente del Senato. Per mezz’ora parve che avesse vinto Spadolini, e Agnelli era tutto contento. Quando si scoprì che aveva vinto Scognamiglio, non ebbe la stessa reazione. E dire che Scognamiglio era un suo parente, aveva sposato la figlia di Suni».

Lei divenne portavoce del governo Berlusconi.
«Una volta raccontai ad Agnelli che avevo ricevuto due amici a Palazzo Chigi. Mi rimproverò: “Non si fa, Palazzo Chigi è un’istituzione!”».

La rimproverò altre volte?
«Quando scrissi sull’Herald Tribune un articolo contro l’Olimpiade a Roma, qualcuno mi accusò di averlo fatto su ordine dell’Avvocato, per favorire l’assegnazione dei Giochi invernali a Torino. Invece lui mi sgridò: “Non si scrive sui giornali stranieri contro il proprio Paese! E poi, tra fare e non fare, sempre meglio fare».

L’Avvocato avrebbe mai venduto la Fiat?
«Mai. Intuiva che dopo di lui sarebbe accaduto. Si fidava di Paolo Fresco, che aveva stretto un patto con la General Motors. Ma tutto era rinviato a dopo la sua morte. La Fiat era una responsabilità; se non un peso».

Perché?
«Una volta, in una delle rarissime confidenze di lavoro, mi disse che se avesse potuto scegliere non avrebbe investito nell’auto, e non avrebbe investito in Italia. Rimasi stupito: all’epoca investire in Italia non era poi così male. Forse presagiva quel che sarebbe accaduto».

Non è grave che abbia portato fondi all’estero?
«È un caso legale ancora da chiarire. Certo, in America una storia così distruggerebbe la reputazione. In Italia siamo più indulgenti”.

Montezemolo dice che Agnelli era più “italiano” di quanto si pensi.
«È vero. Ad esempio era scaramantico: il numero 13, i gatti neri. Ed è falso quel che raccontano sulla sua parsimonia a tavola: “Siamo stati a cena da Gianni e abbiamo mangiato un’acciuga e un pisello…”».

Invece?
«Si mangiava bene e sano. In barca poi mangiava più volentieri: pasta al pomodoro e pesce fresco. Si divertiva a tirare sul prezzo: il pescatore chiedeva 100, lui chiudeva a 80. Poi gli dava 100 lo stesso. Ma voleva far vedere che sapeva trattare».

Anche sull’arte?
«Di musica non capiva niente, ma di pittura era un vero esperto. Una volta si disputarono un Basquiat da un milione di dollari lui e Madonna».

Madonna?
«Agnelli le disse: non lo trova un po’ caro? Lei rispose: non per me, per me è solo una canzone in più. L’Avvocato ne fu molto divertito: just another song… E le lasciò il Basquiat».

Ferrari o Juve?
«La Ferrari lo appassionava perché era sua; la Juve era un vero amore. Nell’intervallo scendeva negli spogliatoi: Trapattoni era un po’ seccato, ma non lo dava a vedere. Si divertiva a punzecchiare Boniperti, a ricordargli che si era lasciato sfuggire Maradona. Adorava Platini e Boniek, che trovava molto spiritoso. Mi raccontò che l’ingaggio prevedeva una parte in nero: Boniek la prese e se la infilò nei pantaloni, proprio lì…».

Le pare possibile?
«Di recente ho visto Boniek qui a Roma, e gliel’ho chiesto. In polacco, per lasciarlo libero di rispondere senza che nessuno, oltre a me, capisse. Mi ha assicurato di no, che era uno scherzo dell’Avvocato».

È vero che amava il pericolo?
«Sì. Ricordo un atterraggio nella nebbia in elicottero. Il pilota disse: non so se riusciremo. L’Avvocato ordinò di provare lo stesso. Oppure si faceva portare sulla sua barca, l’F100, dove cento sta per i piedi: 30 metri, non certo i mega-yacht di oggi; ma si poteva atterrare l’elicottero, con il mare calmo».

E con il mare agitato?
«Il pilota planava, noi ci spogliavamo e ci gettavamo in acqua. Il vero pericolo lo corse su un’altra barca, lo Stealth: sbagliò manovra, finì su uno scoglio, il timone che teneva sino a un attimo prima saltò in aria, per poco non lo trapassò. Visse l’incidente come uno smacco, perché era un ottimo velista: una volta a Bonifacio entrò a vela in una gola che tutti percorrono a motore, tra gli applausi dei presenti… Ho sempre avuto l’impressione che l’Avvocato cercasse una morte violenta, improvvisa».

Invece ha avuto una malattia lenta e dolorosa.
«Dolorosa non credo, o comunque non se ne lamentava. E poi non sapeva di dover morire».

Come fu il vostro addio?
«Non ci fu nessun addio, e mi sarei sorpreso del contrario».

Come? Lei era il suo migliore amico.
«Ma lui non era un sentimentale. E poi detestava i finali. Anche allo stadio andava via sempre prima della fine del match. Ha fatto così anche con la vita».

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.