L’Europa rischia l’esclusione dal grande gioco africano

Federico Rampini Corriere della Sera 24 gennaio 2023
L’Europa rischia l’esclusione dal grande gioco africano
Riaffiora la vecchia retorica antioccidentale. Ne approfittano la Russia e la Cina, facendo incetta di appalti


È il momento dell’Africa: contesa da tutti. La missione di Giorgia Meloni in Algeria avviene mentre i leader del mondo intero corteggiano questo continente da Nord a Sud. Tra le ultime visite importanti: il nuovo ministro degli Esteri cinese, quello russo, e la segretaria al Tesoro americana. L’Africa attrae per ragioni evidenti. Ha risorse naturali immense, dall’energia fossile alle rinnovabili, dai minerali all’agricoltura. Malgrado la nostra visione pauperistica e catastrofista, è un mercato in espansione. In un mondo dove la decrescita demografica è arrivata anche in Cina, è una delle aree dove la popolazione cresce ed è giovane. È una posta in gioco nella divisione del pianeta in aree d’influenza geopolitiche.

In Occidente fa scalpore l’annuncio di manovre militari congiunte tra Sudafrica, Russia e Cina. La marina militare di Putin vi manderà una nave armata di missili ipersonici dell’ultima generazione. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha visitato Pretoria prima di proseguire verso l’Angola e il Botswana. Il governo sudafricano giustifica le manovre militari come «una componente naturale delle relazioni tra Paesi amici». Queste relazioni si sono rafforzate dall’inizio della guerra in Ucraina. Nei primi mesi dell’aggressione russa il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa invocò un ritiro unilaterale di Putin e si offrì come mediatore. Poi ci ha ripensato.

Ora non solo il Sudafrica non aderisce alle sanzioni, ma critica le forniture di armi all’Ucraina e contesta che l’Occidente condanni la Russia ma non l’occupazione di territori palestinesi da parte d’Israele. È la vecchia retorica antioccidentale e anticoloniale che riaffiora come nella prima guerra fredda, quando il Terzo mondo sceglieva il «non allineamento» fra i due blocchi, e al tempo stesso simpatizzava con il comunismo sovietico considerandolo un alleato nelle lotte per l’emancipazione dell’emisfero Sud.

La Cina è la campionessa su questo terreno. Pur essendo una superpotenza economica e finanziaria, ormai la principale «banchiera» di molti Paesi africani, continua a presentarsi come un Paese emergente che sta dalla loro parte contro l’avido capitalismo occidentale. Non appena nominato, il nuovo ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha scelto Addis Abeba come tappa del suo primo viaggio all’estero: capitale dell’Etiopia e anche sede dell’Unione africana. Poi ha proseguito in Gabon, Angola, Benin, Egitto. Tra i suoi slogan preferiti: «Questo sarà il secolo dell’Asia e dell’Africa».

La missione africana della segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen, prende di mira l’espansionismo cinese. La Yellen denuncia le gravi difficoltà in cui versano quegli Stati come lo Zambia, eccessivamente indebitati con Pechino, e oggi alle prese con un creditore ben più esoso e rigido rispetto al Fondo monetario internazionale o alla Banca mondiale. La Yellen ha ragione, dallo Zambia al Ghana si allunga l’elenco di nazioni africane che scoprono l’altra faccia della «generosità» di Xi Jinping. Gli americani aggiungono che il titanico programma delle Nuove Vie della Seta (il nome ufficiale è Belt and Road Initiative) accumula errori e problemi. In quei mille miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali che la Cina ha disseminato nel mondo intero, ci sono opere pubbliche mal concepite, inefficienti, con danni all’ambiente, abusi contro i diritti umani. Tra gli esempi recenti vengono citate due dighe «made in China» lungo il corso del Nilo che attraversa l’Uganda: opere afflitte da una miriade di difetti di costruzione. Le critiche sono fondate però pochi altri soggetti si fanno avanti per contrastare la continua avanzata cinese in Africa, tant’è che il 60% degli appalti per infrastrutture africane sono in mano ad aziende della Repubblica Popolare.

C’è poi l’altra faccia dell’espansione cinese. Oltre al capitalismo di Stato che fa incetta di contratti pubblici, si stima che l’Africa ospiti ormai un milione di imprenditori cinesi. Questo è capitalismo privato che va alla conquista del suo Far West in ordine sparso, con uno spirito pionieristico. Noi occidentali di questa invasione vediamo solo il lato oscuro: sfruttamento, razzismo, abusi contro i lavoratori locali, saccheggio di risorse ambientali. Perdiamo la prospettiva storica che invece adottano alcuni osservatori africani: pensano che se la Cina riuscirà a esportare sul loro continente il suo modello d’industrializzazione, finalmente l’Africa avrà svoltato. Il boom economico cinese non fu «un pranzo di gala», per parafrasare Mao Zedong, però ha sollevato dalla miseria un miliardo di persone.

Esiste una ricetta alternativa? Forse sì, ma noi ci guardiamo bene dal proporla. Le multinazionali occidentali che si avventurano in Africa si attirano immediatamente dei processi alle intenzioni: dalla nostra magistratura alle ong, le accuse preventive di neocolonialismo e corruzione sono un deterrente formidabile. Le aziende cinesi o russe non hanno di questi problemi, quando ci rubano sotto il naso contratti di appalto pagando tangenti ai governi locali. Il nostro estremismo dei diritti umani diventa una forma d’impotenza. Peggio: siamo i primi ad avallare l’alibi delle élite africane più corrotte, secondo le quali esiste un solo imperialismo, quello occidentale. Ramaphosa docet.

La missione di Giorgia Meloni è al tempo stesso indispensabile e insufficiente. L’Italia, come tutti i Paesi europei, deve effettuare una torsione geostrategica verso Sud. Il primo shock energetico nel 1973 ci costrinse a cercare energia affidabile e a buon mercato a Mosca, perché l’Opec ci negava il petrolio. Oggi è Putin ad aver reciso il nostro cordone ombelicale, obbligandoci a un «ritorno al futuro», in cerca di energia nordafricana e mediorientale. È giusta l’idea di un Piano Mattei che evoca una continuità mediterranea nella politica estera italiana. Però nel Mediterraneo oggi si viene rispettati se si ha la forza delle armi, oltre alle risorse economiche. Tra le flotte militari che presidiano le nostre coste Sud si sono potenziate quelle di Russia e Turchia, mentre la Francia arretra e perde alcune delle sue zone d’influenza. In un recente viaggio in Egitto ho avuto conferma del perché il Cairo, malgrado gli aiuti che riceve dagli Stati Uniti, non osa applicare sanzioni alla Russia: le milizie di Putin sono in Libia e in Siria. I leader africani, mentre recitano le giaculatorie di una ideologia anticolonialista, praticano la realpolitik e osservano i muscoli militari in campo.

 

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