Fenomenologia del candidato Bonaccini, alias mister Wolf

Antonio Floridia il Manifesto 27 gennaio 2023
Fenomenologia del candidato Bonaccini, alias mister Wolf
Bonaccini incarna bene l’origine del Pd come partito post-ideologico, vittima però esso stesso, e già dalle origini, della cattiva ideologia sulla “fine delle ideologie”.


È comprensibile lo scatto di orgoglio, alla recente assemblea nazionale del Pd, di fronte alla superficialità di molti commenti al percorso congressuale del partito. Il Pd, certo, sta prestando il fianco, ma i toni di irrisione e di commiserazione sono inaccettabili. Altra cosa è un’analisi critica che ricorra anche alle armi dell’ironia, senza perciò sembrare irrispettosa: ed è quello che qui ci proponiamo.

Mancando quasi tutte le mozioni (quella di Cuperlo c’è già), sono i discorsi tenuti dai quattro candidati a darci i primi elementi di valutazione. Non è vero che siano tutti uguali, anzi; e non tutto è scontato come si tende ad accreditare: quanti andranno ai gazebo? Siamo certi che, dopo il 25 settembre, le cordate siano floride come in passato? E quanta circolazione “extracorporea” riuscirà ad attivare Elly Schlein? Cuperlo saprà parlare a una generazione di militanti che, negli anni, si sono sempre più dispersi e scoraggiati? E Paola De Micheli potrà attivare quelle aree del partito che non si riconoscono nella sinistra ma sono fortemente critiche con l’andazzo degli ultimi tempi? Vedremo. Qui intanto ci concentriamo sulla figura di Stefano Bonaccini, e sul suo discorso.

Occorre una premessa: la politica “si fa” con i discorsi. Poi occorre misurare la coerenza tra le parole e le azioni, ma il primo passo sono le cose che si dicono, e quello che si fa nell’atto stesso di dirle. E l’osservatore può anche ricostruire la “filosofia”, la cultura politica di cui sono intessuti. Un metodo tanto più necessario, quanto più si tratta di discorsi politici che rivendicano apertamente la loro natura “non ideologica”, o che si appellano al “senso comune” (spesso intriso, come sappiamo da Gramsci, di inconsapevoli assunzioni filosofiche).

Come possiamo sintetizzare la “filosofia reale” di Bonaccini (a dispetto del fatto che egli spesso lancia bordate contro i filosofi e contro la “politologia”, il suo bersaglio privilegiato)? Si può dire che Bonaccini è guidato da un “concretismo” ideologico, ossia: poche chiacchiere, facciamo le cose, sentiamo cosa dice la gente. Una sorta di mister Wolf della Pulp Fiction della nostra politica: “Sono il signor Bonaccini, risolvo problemi”. “Trenta secondi” per spiegare le cose: e poi parlare come nei bar (si noti: con il linguaggio da bar, altra cosa che poi ci siano militanti che, quando vanno al bar, abbiano voglia di parlare del Pd e soprattutto sappiano cosa dire).

Attenzione, “concretismo”: non la virtù della concretezza, in sé del tutto encomiabile, e tanto meno “pragmatismo”, termine che richiamerebbe una nobile tradizione filosofica. No: concretismo in quanto tendenziale riduzione dell’agire politico ad una sommatoria e ad una sequenza di problemi “pratici” e di conseguenti soluzioni. Nulla di male, intendiamoci, è una dimensione essenziale del “fare politica” e soprattutto del fare “buona amministrazione”: ma un partito (e un partito che si trova in una grave crisi esistenziale) può risollevarsi solo con questa ricetta? La proposta rivolta ad un congresso di partito si può svolgere su questa falsariga?

Bonaccini sembra faccia di tutto per corrispondere al classico stereotipo del bravo amministratore emiliano: che lo sia in modo autentico e spontaneo, o che accentui a bella posta questi tratti caratteriali e fisiognomici, poco importa. Il risultato è l’indebolimento di ogni dimensione di cultura politica: che partito sarebbe il Pd di Bonaccini? “Riformista”, sì, ma di quali riforme? Con quale ispirazione? Puntando a rappresentare quali interessi?

Tutti, allo stesso modo, lavoratori e imprese, perché (ipse dixit) “senza imprese non c’è lavoro”, classica frase di puro e banale buonsenso? Temo che qui emerga un notevole impoverimento della stessa eredità togliattiana espressa nel famoso discorso su “Ceti medi e Emilia rossa”: una grande strategia di alleanza con gli operai e gli artigiani che si facevano imprenditori (ma contro, lo si rilegga per intero quel discorso, il “grande capitalismo monopolistico”) : ma pur sempre a partire da una solida base operaia, dalla cura assidua e dalla robusta rappresentanza dei suoi interessi.

Il veemente discorso di Bonaccini, con molti passaggi che ricordano comizi d’altri tempi, solleva qualche dubbio se lo si legge come un approccio che dovrebbe rinnovare e ridefinire il profilo politico e ideale del Pd, un profilo che dovrebbe parlare all’intero Paese. E possiamo anche dire che Bonaccini incarni molto bene la natura originaria del Pd come partito post-ideologico, vittima però esso stesso, e già dalle origini, della cattiva ideologia sulla “fine delle ideologie”.

La debolezza di questo approccio la si può cogliere in un passaggio dello stesso discorso. Affermando che prioritario per il Pd è il recupero di quelli che hanno votato a destra (non quello dei senzacasa di sinistra), Bonaccini racconta un episodio: un operaio leghista si è convinto a votare per lui perché alla fine temeva che la sanità emiliana fosse privatizzata come quella lombarda. Bene, è molto positivo che ciò sia accaduto; ma si trattava di elezioni regionali: quell’operaio leghista come avrà votato poi alle politiche? E’ bastato a convincerlo il buon esempio della sanità emiliana? Dubitiamo fortemente.

Come si riesce a far cambiare idee a quell’elettore, quando – da destra – gli viene presentata una precisa offerta ideologica (che ne plasma il senso comune, questo sì poi egemone nei bar, anche quelli della Bassa emiliana); e da sinistra si prospetta, nel migliore dei casi, un assemblaggio di buone proposte, prive di un qualche collante che riescano a renderle coerenti e capaci di offrire una visione della società e del suo possibile futuro?

 

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