Gabriele Romagnoli La Stampa 27 gennaio 2023
Se l’intervento di Zelensky porta la guerra a Sanremo
Il collegamento del presidente ucraino con il Festival scatena un mare di polemiche. Ecco perché Gianni Morandi dovrebbe esibirsi con una delle sue canzoni per la pace
«Stanno sparando (ma non a te) / Stanno morendo (ma non per te) / Ma per ognuno che cade giù / Muore una piccola parte di me». A cantare queste parole, contenute nella canzone Al bar si muore era, nel 1970, Gianni Morandi. Tra qualche giorno salirà sul palco di Sanremo come co-conduttore al fianco di Amadeus. Ci sarà, ovviamente, anche nella serata finale quando, esaurito l’ascolto dei brani in gara, passerà sul maxischermo dell’Ariston il messaggio del presidente ucraino Volodimyr Zelensky, leader di una nazione aggredita dalla vicina Russia e con quella in guerra. Sarebbe una buona idea prevedere la canzone di Morandi nella scaletta subito dopo quell’intervento.
Nell’atmosfera del festival, non diversa da quella di un bar, a quel punto sarebbe già stato inserito un elemento dissonante (l’apparizione di un capo di Stato in assetto da combattente), ma il testo di Francesco Migliacci avrebbe l’effetto e il pregio di ricordare che a toccarci dovrebbe essere la sorte dei giovani su entrambi i fronti: «Per OGNUNO che cade giù, muore una piccola parte di me». Un piccolo elemento equilibratore per una decisione che a molti non sembra un’idea altrettanto buona. Che cosa ci fa Zelensky a Sanremo?
È opportuno cercare di capirlo, perché non è di un evento privo di significati e conseguenze. Non si tratta di Zelensky in televisione come l’abbiamo già visto, in un programma giornalistico dove intervistarlo o anche solo ascoltare la sua versione registrata su quel che sta accadendo sarebbe normale, soprattutto allestendo una forma di contraddittorio in studio, a seguire. La presenza in una gara di canto che rappresenta il momento di più alto raggruppamento popolare al di là dei mondiali di calcio è un’altra cosa.
Non è lui, ex attore, comico, intrattenitore, a tornare nel suo ambito trascorso. È il corrispondente italiano di quell’ambito ad andare da lui, che ora ha tutt’altra veste. Gli addetti alle spartizioni degli incarichi nella televisione hanno capito da tempo che a influenzare l’opinione pubblica non sono tanto i telegiornali o i talk show, quanto i programmi di cosiddetto intrattenimento.
Non è un caso che proprio lì siano andati a farsi intervistare, in situazioni più o meno compiacenti, tutti i leader politici e che proprio in quelle occasioni abbiano registrato la maggiore eco alle proprie parole. Un assolo a Sanremo equivale a uno spot pubblicitario nell’intervallo del Super Bowl. Piazzarlo dopo tutte le canzoni non ne attenua la portata, anzi: tra la fine della partita e la premiazione nessuno cambia mai canale.
Non è un caso che l’annuncio abbia suscitato polemiche e si prevedano fazioni contrapposte davanti al teatro sabato 11 febbraio. Ci sarebbe ancor più fermento se si superassero due condizioni ostative. La prima è di schieramento interno. Ma se dico che eviterei Zelensky a Sanremo allora sto con Di Battista e, dietro il paravento delle sue battute, perfino con Salvini?
L’ortodossia è un malanno. Induce a chiedersi cosa pensano altri prima di chiederlo a sé stessi. A considerare un peccato o un errore essere in disaccordo con il leader del partito per cui si è votato, lo scrittore preferito, il datore di lavoro. Una tantum chiunque può sbagliare e, analogamente, chiunque altro avere ragione.
Il secondo dubbio è: ma allora vuol dire che sto con Putin? È ormai divenuta una clausola di garanzia affermare: «In questa storia c’è un aggressore e un aggredito e non ci si può mettere dalla parte dell’aggressore». Ripeterla è come riaffermare ogni mattina che la terra è rotonda e gira intorno al sole, ma per quanto assurdo possa sembrare c’è ancora qualcuno da convincere.
Quindi: Zelensky è l’aggredito. Ma non è anche altre cose. Non è, non più, Davide contro Golia. Non è Mandela. Non ha o non propone un piano b al di fuori dell’esito del conflitto.
La domanda allora diventa: noi pensiamo che abbia ragione o siamo suoi alleati? Esiste una differenza non sottile tra le due cose. Da un certo punto in avanti le ipocrisie del linguaggio non evitano le conseguenze nella realtà.
Amadeus non è l’ambasciatore che consegna la dichiarazione di guerra a Lavrov, ma intervistare Lavrov su una rete privata era più discutibile, eppure più innocuo. Assad, un pigro sterminatore del proprio e altrui popolo, per lo meno fu inserito in una cornice giornalistica.
Il festival e il suo contesto televisivo sono sempre stati ecumenici, fino alla noia. Un po’ come i concorsi delle miss che alla domanda: «Qual è il tuo sogno più grande?». Rispondevano: «La pace nel mondo». E noi che cosa vogliamo: la cessazione delle ostilità o un’umiliante sconfitta per il despota di Mosca, a cui ne succeda magari uno peggiore?
Nei talk show le teorie pacifiste e chi le sostiene vengono spazzati via con arroganza da ospiti convertiti al risiko. Non è quasi immaginabile Zelensky al festival. E quando avrà chiuso il collegamento, che accadrà? Partirà un bell’applauso? Una standing ovation con i dirigenti apicali in piedi nelle prime file, ma quelli filo-salviniani un po’ ingobbiti per non farsi inquadrare?
Poi, però, fate cantare a Gianni Morandi una delle sue canzoni contro la guerra. Ci sono anche figli dell’Arbat, ragazzi come siamo stati noi, che amavano le Pussy Riot, ma sono finiti a fare la guerra nel Donbass e a casa non torneranno più.