Il mondo di Cappellini diviso tra eroi della libertà e filo putiniani

Stefano Cappellini La Repubblica 28 gennaio 2023
“Il pupazzo Zelensky”, di Salvini-Di Battista, cantano Ovadia e Vauro. Ma l’odio per Kiev non c’entra con Sanremo 
La campagna contro il leader ucraino al festival si fonda su una tesi coltivata da mesi: la guerra per procura

In Italia, se si vuole avere un’idea di quanto e come stanno circolando le bufale, le teorie complottiste, le dietrologie più viete, le tesi “controcorrente”, bisogna salire su un taxi. Provate a rivolgere a un tassista la parola Zelensky, è un sondaggio ruspante ma efficace: diciamo, per arrotondare il risultato, che alcuni reagiranno come se avessero sentito pronunciare una parola che merita esclamazioni e sospiri, del genere “ah potessi dire quello che penso…”, altri meno pudichi reagiranno con parole assimilabili al registro di Maria Zacharova, la portavoce del ministero degli Esteri russo che un compunto e riverente Massimo Giletti andò a intervistare a Mosca convinto che ne sarebbe tornato con la prova che la pace è possibile anziché angariato dalla zarina, come poi avvenne. “Zelensky è la puttana dell’Occidente”, ha detto di recente Zacharova. Ecco, anche per il tassista il senso è più o meno quello.

Il paragone tra alcuni sondaggi a livello europeo ha dimostrato che il nostro Paese è quello dove più è penetrata la propaganda russa e dove le ragioni di Mosca nel conflitto ucraino sono tenute in migliore considerazione. La notizia della partecipazione di Zelensky a Sanremo ha quindi dato a molti un’occasione formidabile per attaccare il presidente ucraino e rinfocolare le proprie convinzioni.

Naturalmente, è lecito coltivare dubbi sull’opportunità che Zelensky partecipi al festival. Più complicato è argomentare la contrarietà alla sua partecipazione con la tesi che è meglio non mischiare canzonette e temi seri, a meno di non sostenere che fu fuori luogo il monologo di Rula Jebreal sugli stupri e la violenza di genere, e fuori posto Roberto Saviano quando dal palco dell’Ariston ricordò Falcone e Borsellino, e fuori tema un’altra mezza dozzina di accorati interventi sanremesi sui mali dell’Italia e del mondo, cosa che, peraltro, può anche essere. Ma, chiariamolo subito, il problema non è Sanremo sì o Sanremo no.

Quello è un dibattito buono per chi, comunque, ha della guerra in Ucraina una visione chiara di responsabilità e dinamica. Il problema, per gli altri, è proprio Zelensky. Sanremo, per loro, è solo il pretesto di una nuova offensiva contro il leader ucraino, ghiotta perché può persino essere condotta senza passare esplicitamente per filoputiniani, almeno non a prima vista. Ma non c’è nulla che questa compagnia di giro – che gode del fresco supporto di due politici di vaglia che si sono schierati su Sanremo: Matteo Salvini e Alessandro Di Battista – non abbia già detto contro Zelensky, e senza bisogno della sponda festivaliera.

Prendete Moni Ovadia. Ha firmato un appello che chiama alla mobilitazione contro Zelensky al festival e ha detto: “Basta con le umiliazioni a Putin”. Poi dicono che la satira è morta. Basta umiliazioni, ha aggiunto Ovadia, perché Putin è uno che si arrabbia e, se si arrabbia, può anche usare l’atomica. Se vi pare un ragionamento un po’ arronzato, politicamente e pure eticamente, sappiate che è il cuore di un appello rosso-bruno promosso sul finire dell’anno scorso da Massimo Cacciari, Franco Cardini e altri intellettuali, i più accomunati dall’essere stati alcuni ex comunisti e altri ex fascisti, il cui senso era proprio quello di Ovadia: la Russia ha le armi nucleari, meglio lasciar stare. Lasciarla fare, inteso.

Nella famigerata serata al Ghione organizzata da Michele Santoro nella primavera scorsa e chiamata “Pace proibita” (proibita da Biden, ovviamente) c’era già tutto, e sempre senza bisogno del supporto di Amadeus. Quella sera Ovadia si presentò sul palco del teatro romano attaccando Zelensky e l’Ucraina dal primo all’ultimo minuto del suo intervento, e citò a supporto delle sue tesi il lavoro della giornalista statunitense Lara Logan, presentata come una eroina della professione, “esempio di giornalismo anglossassone”. Logan è una giornalista trumpiana ed esponente dell’alt-right complottista e antisemita, cacciata da Fox News per aver paragonato il dottor Antony Fauci al nazista Mengele, e per questo duramente censurata anche dall’Auschwitz Memorial.

Proprio Logan fu offerta dall’ebreo Ovadia come fonte qualificata per il suo monologo contro i “nazisti ucraini” (del resto, di lì a poco il ministro degli Esteri Sergej Lavrov avrebbe rilanciato in tv la storica bufala secondo la quale Hitler stesso era ebreo. Su Russia1? No, su Rete4), un po’ come se in un convegno estero sul Covid qualcuno cercasse di suffragare le sue ragioni citando l’ex vicequestore Nunzia Schilirò o Marco Rizzo.

Di Zelensky, Logan ha detto: “Un pupazzo della Cia”. Parole quasi identiche a quelle usate l’altro giorno in tv dal disegnatore Vauro, uno di quegli esponenti della sinistra comunista che fa una gran fatica a distinguere tra la Russia putiniana e l’amata Unione sovietica, e che del presidente ucraino ha detto: “Un pupazzo criminale”. Perché quella sera al Ghione c’era già tutto il repertorio su Zelensky, senza bisogno di Ultimo e dei Cugini di campagna. C’era anche il direttore di Avvenire Marco Tarquinio a parlare di “guerra per procura”, la locuzione educata per dare a Zelensky del pupazzo guerrafondaio.

Da questo punto di vista, Zelensky può stare tranquillo: la sua sortita a Sanremo non susciterà alcun sentimento di astio nei suoi confronti che non sia stato abbondantemente coltivato e annaffiato ben prima dei fiori di Sanremo.

 

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