Per tenere viva la memoria della Shoah bisogna ricordare tutti gli altri genocidi

Vito Mancuso La Stampa 28 gennaio 2023
Per tenere viva la memoria della Shoah bisogna ricordare tutti gli altri genocidi
Erigere l’Olocausto a paradigma in cui riconoscere le tante atrocità vissute e prevenire quelle del futuro


Liliana Segre ha affermato: «Fra qualche anno della Shoah ci sarà una riga nei libri di storia, e poi nemmeno quella». È possibile evitare un simile esito? Cominciamo col dire che dare un nome agli eventi è essenziale. Significa com-prenderli, prenderli con, farli propri: un evento, che prima era fuori dalla mente, poi, mediante il nome attribuito, le entra dentro e, da oggetto muto, assume un significato. Churchill aveva parlato dello sterminio degli ebrei a opera dei nazisti come di un «crimine senza nome» perché non c’erano precedenti nella storia, per quanto assai sanguinosa, dell’umanità. Poi però il bisogno di comprendere della mente iniziò a proporre dei nomi per l’evento e tra questi, alla fine, se ne impose uno: Shoah, termine ebraico che significa «catastrofe».

Ma che tipo di catastrofe si nomina dicendo Shoah? Catastrofe, infatti, può essere riferita a molte cose e noi nel linguaggio quotidiano ne usiamo il nome anche per eventi ben poco catastrofici, come quando, a proposito di uno spettacolo, diciamo «a teatro è stata una catastrofe». Occorre quindi specificare la tipologia di catastrofe nominata dicendo Shoah, chiarire quale fu la peculiare catastrofe che i nazisti misero in atto con l’operazione da loro detta Endlösung, «soluzione finale». La risposta migliore è quella fornita dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin con il termine che coniò per nominare il contenuto specifico della Shoah: «genocidio». La Shoah è la catastrofe consistente nel genocidio del popolo ebraico.

Di ogni termine il dizionario Zingarelli riporta l’anno della prima occorrenza nella nostra lingua e per «genocidio» l’anno è il 1950 (per Shoah è il 1985). Il termine era stato coniato da Lemkin sei anni prima, nel 1944, sulla base di due antiche parole: il greco «genos», popolo, e il latino «cidium» (dal verbo «caedere», «colpire a morte») da cui «homicidium». Genocidio è l’omicidio di un intero popolo.
Prima della Shoah vi furono altri genocidi? Almeno due: quello degli armeni a opera della Turchia dal 1915 al 1916 con 1,5 milioni di vittime, e quello pianificato da Stalin contro gli ucraini con la grande carestia del 1933-34 detta Holodomor con 3,5 milioni di vittime. A quei tempi però non esisteva una Giornata della Memoria e per questo Hitler nel 1939 poté dichiarare: «Chi parla ancora oggi dell’annientamento degli armeni?» (dal report dell’ambasciatore britannico del 25 agosto 1939). È evidente che il silenzio in cui era caduto il genocidio degli armeni lo incoraggiava a mettere in atto il genocidio che stava programmando per gli ebrei e che attuò da lì a poco.

Il che dimostra che esiste un profondo legame tra le forme di male estremo che gli umani sono capaci di commettere, ed è compito del pensiero individuare tale legame. Esiste però anche un legame almeno altrettanto profondo tra le forme di bene estremo che gli esseri umani sono pure in grado di praticare, ed è sempre compito del pensiero individuarle e compito del cuore celebrarle. È quello che fa da oltre vent’anni Gariwo, una fondazione con sede a Milano e con numerose collaborazioni internazionali, il cui nome è un acronimo che sta per «Gardens of the Righteous Worldwide», «Giardini dei Giusti di tutto il mondo».

Presieduta dallo scrittore ebreo Gabriele Nissim, e da lui fondata nel 2000 insieme allo scrittore armeno Pietro Kuciukian, Gariwo si occupa di ricercare le figure esemplari di Giusti dell’umanità, di farle conoscere e di celebrarle. Lo fa piantando alberi, un albero per ogni Giusto, in ognuno degli oltre duecento Giardini da essa istituiti e coltivati in tutta Italia e in una dozzina di Paesi, tra cui, non a caso, Armenia, Germania, Israele, Argentina, Kurdistan iracheno.

In questa prospettiva Nissim conduce da anni la sua battaglia per far comprendere come il senso della Giornata della Memoria debba essere duplice: in ordine al passato ricordare i nomi e i volti di coloro che furono uccisi nei campi di sterminio; in ordine al futuro prevenire ogni possibile nuovo genocidio. Infatti, come prima del genocidio ebraico si ebbero i due genocidi ricordati, così dopo ne seguirono altri.

Quanti? Secondo Gregory Stanton, fondatore di Genocide Watch, dal 1948 a oggi si sono avuti più di 55 stermini definibili «genocidio» con 70 milioni di vittime. Di recente Nissim ha scritto un saggio dal titolo Auschwitz non finisce mai, sottotitolo La memoria della Shoah e i nuovi genocidi, la cui tesi è che la Shoah non deve essere considerata qualcosa di unico e di conseguenza di irripetibile nella storia, ma deve piuttosto essere considerata come il genocidio paradigmatico del Novecento, una lente di ingrandimento per individuare e impedire ogni altra possibilità di genocidio.

La Shoah come genocidio «paradigmatico»: il paradigma è il modello grammaticale della coniugazione di un verbo. In esso non sono contenute tutte le possibili forme che il verbo assumerà, ma grazie a esso è possibile riconoscerle. Così, per Nissim e altri studiosi ebrei, dovrebbe essere la memoria della Shoah: rappresentare un paradigma che consente di riconoscere tutte le forme possibili della coniugazione del verbo del terrore e dell’odio.

Il primo a parlare della Shoah come genocidio paradigmatico è stato lo storico israeliano Yehuda Bauer, il quale poi però aggiunse: «Non c’è differenza tra la sofferenza degli ebrei, dei tutsi, dei russi e dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi popolo che si sia trovato in un omicidio di massa genocidario. Non esiste una gradazione nella sofferenza… non esiste dunque alcun genocidio peggiore di un altro. L’idea di competizione non è solo ripugnante, ma totalmente illogica».

Questo è il punto delicato della questione: definire la Shoah genocidio «senza precedenti» facendo uso di una categoria storica, oppure definirla come «unicità assoluta» incomparabile a ogni altro genocidio facendo uso di una categoria metastorica e giungendo persino a differenziare il valore delle vittime e della loro sofferenza riconoscendo il titolo di Giusto solo a chi salva ebrei e non invece altri esseri umani (come sostengono alcuni esponenti dell’ebraismo). Per Nissim, e prima ancora per Bauer e per Lemkin, la Shoah è un genocidio senza precedenti (ma che, come ha scritto Primo Levi, «è avvenuto, quindi può accedere di nuovo») e il titolo di Giusto spetta a chi salva vite umane di qualunque popolo, senza nessuna differenza.

Liliana Segre ha affermato che «fra qualche anno della Shoah ci sarà una riga nei libri di storia, e poi nemmeno quella». Evitare un simile esito è un dovere di ogni essere umano dotato di retta coscienza morale, perché la Shoah deve continuare a essere studiata e ricordata da tutti, semmai ancora di più. Ma come? A condizione di quanto scrive Anna Foa, storica ebrea: «L’unico modo di tener viva la memoria della Shoah è quella di aprirla ai genocidi che hanno costellato il Novecento e che continuano a realizzarsi, in questo nostro terzo millennio, nel resto del mondo». Viceversa, prosegue la studiosa, «se ci limiteremo a raccontare quello che è successo al popolo ebraico nella Shoah, se ci chiuderemo in una visione difensiva della memoria, avremo perso la battaglia in partenza».

Aprirsi a una visione non difensiva della memoria significa erigere la memoria della Shoah a paradigma in base a cui riconoscere ogni altro genocidio, iniziando a parlare, come avrebbe desiderato Lemkin, di «Giornata della Shoah e della prevenzione dei genocidi». E significa anche esercitare tutte le possibili pressioni su Israele perché riconosca finalmente lo sterminio degli armeni operato dalla Turchia come «genocidio», come finora hanno fatto numerosi Stati, tra cui l’Italia. Israele non può non ricordare le parole di Hitler del ’39 sul genocidio dimenticato degli armeni! Anche perché, se c’è un popolo che può capire l’atrocità di non veder riconosciute le proprie sofferenze, è proprio il popolo ebraico. Ha scritto Gabriele Nissim: «Si diventa maturi quando si includono le sofferenze degli altri nella nostra memoria».

Quando lo accusarono di tradire la religione perché accoglieva anche i paria infrangendo l’ordinamento delle caste, il Buddha rispose: «Il sangue di tutti è rosso, e le lacrime di tutti sono salate. Tutti siamo esseri umani». La Giornata della Memoria trasformata in «Giornata della Shoah e della prevenzioni dei genocidi» ce lo potrebbe ricordare con maggiore efficacia, evitando così che la Shoah si riduca a una riga nei libri di storia e poi un giorno neppure a quella.

 

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