Michele Serra La Repubblica 28 gennaio 2023
Guerra e canzonette un falso problema nel grande mischione dell’entertainment
Da almeno un quarto di secolo (da quando Fabio Fazio, nel 1999, portò all’Ariston come co-presentatore il premio Nobel per la medicina Dulbecco, e invitò Gorbaciov) Sanremo non è più una “rassegna di canzonette”, come buffamente si sente dire in questi giorni da quanti recriminano sull’annunciato collegamento con Zelensky.
È un format forse unico al mondo, smisurato e follemente deforme (format deforme…), nel quale, in circa trenta ore di diretta, più l’indotto che tracima su tutte le reti Rai e non Rai, confluiscono quasi tutti gli ingredienti mediatici disponibili, meglio se emotivamente coinvolgenti, perché si sa quanto l’entertainment punti sulle emozioni.
Anche perché trenta ore di sole “canzonette” (parola che non si sentiva pronunciare dai tempi di Nilla Pizzi) stroncherebbero anche il pubblico più votato al sacrificio. E dunque Sanremo diventa, per cinque sere, l’intero palinsesto in un solo teatro. Tutta la televisione che va in televisione.
Da quel palco sono passati astronauti, medaglie d’oro, giornalisti anti-mafia, indossatrici, metalmeccanici con tanto di appello, recordman del mondo, star del cinema, aspiranti suicidi in diretta, l’Armata Rossa (solo il coro, niente paura) e i Carabinieri, l’orchestra della Scala, Pavarotti, i testimonial più vari delle cause più drammatiche e importanti, dalla ricerca scientifica ai diritti dei disabili, dalla violenza sulle donne alla disoccupazione.
Sono stati fatti monologhi sui migranti, sullo stupro, sull’omosessualità. La guerra, si capisce, non è molto pop – anche se il popolo ne è la prima vittima. Ma la cultura pop, di cui la scena mediatica è il braccio armato, ambisce a non lasciare in ombra nulla di nulla, e a sentirsi sempre all’altezza di qualunque tragedia; il pop è la forma di totalitarismo (indolore, almeno fisicamente) nel quale noi viviamo sprofondati ormai da tempo. Si pensi, per esempio, alla commistione inarrestabile, anche sui siti e sui media più seri, tra gossip e politica, tra cronaca nera e rosa.
Zelensky convive con gli eredi Lollobrigida e con il principe Harry su tutti i giornali italiani e del mondo (con gli eredi Lollobrigida locali), perché non dovrebbe dividere la scena con i Cugini di Campagna?
Dunque la sola osservazione possibile, sul tema “Zelensky all’Ariston”, sarebbe rigettare il format in quanto tale, nonché la cultura pop in quanto tale. Mettere in discussione il gran mischione che abbiamo fatto, e nel quale viviamo a bagnomaria da un bel pezzo, tra i Cugini di Campagna e la guerra in Ucraina. Se fosse questo, il motivo del contendere, la polemica sarebbe lecita e soprattutto interessante: dobbiamo o non dobbiamo ristabilire degli ambiti, rilanciare il concetto stesso di “contesto”?
Ma il motivo del contendere non è questo. Se lo fosse, nessuno sarebbe così sciocco da parlare di un “festival di canzonette”. Il motivo del contendere è la presenza di Zelensky in quanto Zelensky. È la scoperta, molto tardiva e molto strumentale, che la politica e la guerra (anche la politica e la guerra) sono anche loro ingredienti di un grande show, materiali mediatici, armi di istruzione di massa più o meno efficaci, più o meno micidiali.
Zelensky, che prima di trovarsi costretto nel ruolo di capo di un popolo martire era stato uomo di spettacolo, queste armi le conosce bene, e le sa usare benissimo (molto meglio dei suoi arcaici invasori, ingrugniti nel loro muto fuori onda). È apparso a Venezia cinema, apparirà a Sanremo, si starà chiedendo se non sia il caso di fare una capatina, via Skype, anche alla finale di Champions League.
Anche le tragedie sono confezionate, ai nostri tempi, tra uno spot pubblicitario e l’altro: queste sono le regole per farsi ascoltare e per farsi sentire. Va aggiunto che per avere il privilegio di esibirsi “senza contraddittorio”, come dicono i politici quando protestano perché non sono stati invitati, l’Ucraina ha già pagato il suo prezzo. Molto più caro di un abbonamento a tutte e cinque le serate. E perfino più caro di uno spot nell’orario di massimo ascolto.