Zelensky a Sanremo, lo specchio del paese

Goffredo Buccini Corriere della Sera 28 gennaio 2023
Zelensky a Sanremo, lo specchio del paese
È assai trasversale lo schieramento di chi, in queste ore, sta facendo del festival una guerra combattuta con altri mezzi

 

E no, non sono solo canzonette. Chi sostiene il contrario dev’essersi perso qualche decennio di festival. I temi politici e sociali hanno invaso spesso la rassegna canora più famosa d’Italia: dal debito dei Paesi poveri alle migrazioni, dalla violenza sulle donne alla fluidità di genere. Sicché la «crisi di Sanremo», esplosa attorno all’apparizione di Volodymyr Zelensky al teatro Ariston nella serata finale di quest’anno, sa molto di sfogatoio, è un po’ parlare ad Amadeus perché Meloni intenda.

È assai trasversale lo schieramento di chi, in queste ore, sta facendo del festival una guerra combattuta con altri mezzi. E non può dunque ridursi alle consuete pattuglie di pacifisti ultras, secondo i quali la presenza Zelensky (già ospite a Cannes, a Venezia e ai Golden Globes) sarebbe «propaganda bellica», o ai semplici tifosi dell’invasione russa. Ma, con tutto il rispetto per la buonafede di ciascuno, è come se alzare la voce contro i due minuti videoregistrati dal presidente ucraino servisse a spurgare un malanimo, una frustrazione cui è diventato difficile dare fiato altrimenti, magari per ragioni di tenuta della coalizione d’appartenenza o per semplici motivi di decenza politica.

Sanremo, la cui maggiore attrattiva consiste proprio nell’essere un immane selfie della nazione, anche stavolta racconta molto di noi. Il discorso pubblico è parecchio cambiato rispetto a undici mesi fa, quando furoreggiava un esplicito invito agli ucraini a non opporre resistenza alcuna contro un nemico tanto più forte, così che le loro vite sarebbero state risparmiate. Questo modo di ragionare — che nella sua oscenità si potrebbe estendere nel quotidiano a qualsiasi vittima d’una aggressione, d’una rapina, persino di uno stupro — si incrociava solo in superficie con le varie manifestazioni del pacifismo emerse in quel periodo. Si legava invece in profondità, più o meno consapevolmente, al realismo offensivo, la corrente di pensiero sviluppata soprattutto da John Mearsheimer che teorizza l’espansionismo bellico d’una grande potenza volto a un’egemonia regionale da cui trarre sicurezza in un sistema malato di anarchia (ciò che Putin avrebbe fatto con la cosiddetta «operazione speciale», insomma: noi occidentali ce la saremmo cercata, montando la testa agli ucraini sull’adesione alla Nato, e dunque provocandolo).

L’opinione cinico-realista, che prescinde dalle libere scelte di un popolo, s’è infranta su qualcosa a cui il politologo americano non pare dia molto peso: il fattore umano, appunto. Nel nostro caso, la straordinaria resistenza di Zelensky e dei suoi compatrioti, all’inizio persino contro le cautele «realiste» di Washington. È stata questa ostinazione a non sottomettersi la variante che ha cambiato la scena e ha spinto l’Occidente fuori dal guscio.

Undici mesi dopo, l’Occidente ha retto. E, miracolo, l’Italia pure. Sicché, con una guerra di attrito in corso, si va sviluppando nel nostro dibattito interno una forma di realismo meno sfrontata, certo non estranea a due dati di fatto: che il presidente ucraino ha assunto una dimensione mondiale da icona della libertà (tale da guadagnarsi persino…Sanremo); e che il dittatore russo ha fallito per ora il proprio vero obiettivo, l’annichilimento dell’Ucraina (il Donbass, mero pretesto per l’invasione, stando a Putin come i Sudeti stavano a Hitler).

Questa sorta di originale ordo-realismo non lesina suggerimenti, dispensati, s’intende, per il bene dell’umanità. Il principale dei quali consisterebbe nell’indurre Zelensky a fermare le armi, qui e ora, per una tregua che somigli alla soluzione del Trentottesimo parallelo, quello che divise (e divide) le due Coree. Il consiglio in subordine è rivolto all’Occidente: smettiamola di sostenere l’Ucraina altrimenti dovremo mandare direttamente le nostre truppe sul campo, perché Putin è troppo forte (in momenti di difficoltà si dice invece che «non bisogna umiliarlo»). Il dittatore di Mosca, si afferma, può arrivare a un milione e mezzo di coscritti, ha resistito alle sanzioni, ha l’atomica. I nuovi realisti assimilano aggredito e aggressore sotto la più ambigua etichetta di «contendenti». E tornano appena possibile a ridurre Zelensky alla sua prima identità di attore (comico): dunque, si sostiene che interpreti un copione scritto da altri (va da sé, dall’America). Questo articolato campionario di opinioni volte a giungere al secondo atto, quello in cui il presidente ucraino china il capo oppure viene abbandonato dagli alleati occidentali, deve però fare i conti con alcuni intoppi.

Innanzitutto, Armageddon con opzione suicida a parte, una leva di massa è proprio ciò che a Putin può costare una finora improbabile rivolta popolare e le sanzioni, ricordava giorni fa Foreign Affairs, stanno a poco a poco «azzoppando l’economia russa». Inoltre, quasi un sesto dell’Ucraina è tuttora sotto occupazione: non si vede come potrebbe Zelensky convincere il proprio popolo ad abbandonare amici e parenti in mani nemiche; sono stati commessi spaventosi crimini di guerra, stupri e massacri di massa, e gran parte del Paese è stata devastata: non è pensabile che nessuno paghi il conto, sia giuridico che economico. Infine, e questo vale per noi, non fermare Putin significa ritrovarselo fra tre o cinque anni a bussare alla Lituania con il pretesto dell’enclave di Kaliningrad o alla Moldavia per la causa della Transnistria e magari un giorno al confine polacco o finlandese.

Ma soprattutto il realismo da scienziati della geopolitica cozza con qualcosa che non si capisce a tavolino, lo spirito dei popoli. Se, restando ai casi di casa nostra, l’Italia di Giorgia Meloni non ha cambiato la postura atlantista tenuta dal governo di Mario Draghi, lo si deve certo al bisogno della premier di accreditarsi come affidabile nelle cancellerie europee e a Washington. Ma forse, un po’, lo si deve pure ai «ragazzi di Buda», quelli che si ribellarono ai carri sovietici in Ungheria e vennero immortalati in una canzone di Pingitore, intonata per generazioni dalla destra italiana. Nel 1956 Meloni era molto lontana dal venire al mondo. Ma quell’eco dentro di lei è qualcosa che nemmeno cento saggi di Mearsheimer spiegherebbero. I sentimenti contano molto. E alla fine forse è questo che dà più fastidio in due minuti di videomessaggio, dopo le canzonette.

 

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