Domande inquietanti sulle code per il passaporto

Flavia Perina La Stampa 29 gennaio 2023
La coda per il passaporto
Presi come eravamo a litigare sui nuovi diritti ci siamo dimenticati dei vecchi: ad esempio, il diritto elementare di ottenere un documento di identità che ci consenta di spostarsi e viaggiare. Le code notturne davanti agli uffici passaporti di Torino e Genova (ma anche a Milano, Parma, Varese) ricordano quelle per le patate o lo zucchero durante la guerra ma sono ovviamente più arrabbiate perché qui non ci sono bombe o devastazioni mondiali a giustificare la penuria di un timbro, di un modulo, di un’autorizzazione al rilascio.

Dicono al Viminale che l’ingolfamento delle Questure è dovuto ai molti documenti scaduti in era Covid e ai Comuni-lumaca nella gestione delle carte di identità, ma soprattutto è effetto di una psicosi immotivata che sta spingendo le persone a richiedere il rinnovo tutte insieme. Magari è vero, e nel caso ci sarebbe da interrogarsi sul motivo per cui migliaia di cittadini non si sentono tranquilli senza un titolo valido per l’espatrio in tasca (qual è la paura? Restare prigionieri del proprio Paese?).

Ma è più probabile che la domanda da farsi sia un’altra e riguardi il paradosso tutto italiano per cui l’automazione di molte procedure, gli appuntamenti automatici, le prenotazioni telematiche, invece di semplificarci la vita ce l’hanno complicata e generano code invece di ridurle.

Succede ovunque serva un documento o un appuntamento. Alle poste, negli ospedali, nei municipi, alle Asl, nelle case comunali dove si ammucchiano multe mai notificate perché manco le raccomandate arrivano più come dovrebbero, e i vigili (a Roma, ma non solo) anziché lasciarti sotto il tergicristallo il verbale mettono un ticket che richiede una caccia al tesoro per scoprire quanto e come devi pagare. Deve esserci un motivo oscuro se solo da noi la modernità amplifica vecchie inefficienze e ne crea di nuove, inimmaginabili fino a poco tempo fa, e le burocrazie minori – così come quelle dei massimi sistemi – riescono a riprodurre i loro vizi e lentezze persino nel regno dell’efficienza governato dagli algoritmi.

Altrove, i rischi della società iperconnessa, che tutto sa delle nostre vite e dei nostri affari, sono almeno in parte compensati dai vantaggi di avere a portata di clic, con esito istantaneo, ogni adempimento nei poteri della pubblica amministrazione. Anche da noi il Grande Fratello esiste e tutto sa delle nostre vite, ma è intimamente ostile alla parte “buona” del suo lavoro, la trasparenza e la velocità lo scocciano, preferisce ritmi più borbonici. Il massimo dell’innovazione lo esprime inventando titoli accattivanti per ribattezzare l’eterno “mettiti in fila e abbi pazienza”: ora si chiama Open Day, è il rito umiliante di alzarsi all’alba e sperare di arrivare allo sportello tra i primi, ma il nome ha il sapore di un’occasione, di un evento imperdibile.

Così, non solo i nuovi diritti ci sfuggono ma persino i vecchi, quelli che davamo per scontati – cosa c’è di più banale del rinnovo di un documento? – diventano più complicati e generano quel tipo di astuzie di cui, non a caso, noi italiani siamo specialisti: il suggerimento che si rincorre tra la folla degli Open Day è quello di comprare biglietti aerei da poche decine di euro, in una data molto vicina, per approfittare della corsia privilegiata concessa alle urgenze. Molti lo fanno, ed è la perfetta metafora del disastro etico che produce l’inefficienza pubblica: convincere le persone che fregare lo Stato sia la sola via per ottenere ciò che gli spetta.

 

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