Marco Revelli La Stampa 29 gennaio 2023
Giornata della memoria, parole di verità e silenzi a destra
Non è stata solo formale la celebrazione del Giorno della memoria. Non lo è stata nemmeno nelle sedi istituzionali più alte, dove è pur sempre presente il rischio che la cerimonialità di maniera neutralizzi la forza tragica degli eventi, e che il sordo lavoro del tempo trascorso ne appanni l’orrore.
Quest’anno, poi, il passaggio appariva particolarmente delicato, data la presenza alla giuda del governo di forze e persone che appartengono a una storia altra, e opposta, rispetto a quella di chi quel «male assoluto» combatté a viso aperto, e trasformò la propria vittoria nel patto costituzionale che ha garantito la nostra democrazia.
La tentazione di un atteggiamento reticente avrebbe potuto farsi strada. E invece, nel discorso del Presidente Mattarella, alcune cose forti, e chiare, sono state dette.
Intanto è stato affermato con chiarezza che quell’abisso infinito e tuttora in gran parte insondabile che fu Auschwitz non fu affatto un incidente della storia, una ventata di follia omicida, ma affonda le radici, e si presenta come diretta e in qualche modo inevitabile conseguenza di un’ideologia e di un progetto politico che si chiama Fascismo e Nazismo.
Un modo di concepire la storia, la società, sé e gli altri, dominato da un principio di sopraffazione e di auto-affermazione spinto fino alla negazione di ogni umanità. In questo il Presidente è stato chiarissimo quando ha affermato che «il sistema di Auschwitz e dei campi ad esso collegati fu l’estrema, ma diretta e ineluttabile, conseguenza di pulsioni antistoriche e antiscientifiche, di istinti brutali, di pregiudizi, di dottrine perniciose, di gretti interessi, e persino di conformismi di moda».
E, a scanso di equivoci, ha dato un nome alle «tossine letali» che hanno prodotto quell’orrore, e che si chiamano «razzismo, nazionalismo aggressivo e guerrafondaio, autoritarismo, culto del capo, divinizzazione dello Stato» – ovvero gli ingredienti più propri del fascismo, di ogni fascismo, quale che sia il tempo e il nome che si dà.
Né si è stati reticenti, in quest’occasione, sulle responsabilità collettive che permisero al «male assoluto» di installarsi nel cuore d’Europa e compiere sistematicamente e capillarmente, il proprio lavoro di morte.
Lo sterminio non porta solo la firma dei pochi capi criminali – Mussolini e Hitler in primis, a contendersi il primato della violenza e dell’orrore – che apposero le proprie firme sotto la sentenza di condanna a morte dell’umanità. Essi poterono contare sulla complicità di molti, di troppi, sul loro silenzio, sulla loro adesione, sul conformismo e sull’egoismo di tanti, sulla disponibilità al servo encomio e al codardo oltraggio, per arraffare un posto, una carica onorifica, un favore dai potenti.
Nel rendere onore a quegli italiani che seppero ribellarsi a tutto ciò, e che pagarono a caro prezzo per questo, ha aggiunto Mattarella, «non possiamo sottacere anche l’esistenza di delatori, informatori, traditori che consegnarono vite umane agli assassini, per fanatismo o in vile cambio di denaro».
Ed è stata una liberazione, questo passaggio, rispetto al retrogusto dolciastro di troppe auto-assoluzioni dalle colpe storiche che il nostro Paese porta sulla propria coscienza collettiva; alla retorica degli «italiani brava gente», col conseguente rifiuto di assumere, e riconoscere, le proprie responsabilità: primo passo per non ricadere in quell’abisso morale.
Quando ci si ricorda che «il terribile meccanismo di distruzione non si sarebbe messo in moto se non avesse goduto di un consenso, a volte tacito ma comunque diffuso, nella popolazione», si dice proprio questo: che l’apatia e l’indifferenza dei popoli di fronte alle potenze del disumano scatenate da capi criminali li rende responsabili.
Quando si afferma che «la Repubblica di Salò fu alleata e complice dell’occupante nazista» e che «dopo i drammatici fatti seguiti all’8 settembre del 1943, le milizie fasciste parteciparono alla caccia degli ebrei», si traccia una linea ben netta, nel corpo stesso del Paese e nella sua storia.
Se un senso il giorno della memoria ce l’ha, questo non può essere che quello di una forte, intransigente interrogazione su noi stessi, sul nostro passato ma anche sul nostro presente: sulle diffuse tracce di orrore che ci circondano, e che in parte anche s’insediano nella nostra stessa comunità nazionale; sul rischio che gli antichi vizi riemergano, e cancellino le fragili virtù che abbiamo scritto nella nostra Carta costituzionale. La frase di Liliana Segre, pronunciata qualche giorno fa, in cui esprimeva tutto il proprio timore, e pessimismo, sulla possibilità che «tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga soltanto tra i libri di storia e poi più neanche quella», ci dice quanto grave sia il pericolo, e quanto impegnativo sia il compito, per ognuno, di smentire quella profezia.
Giornata della memoria, parole di verità e silenzi a destra
Marco Revelli La Stampa 29 gennaio 2023
Giornata della memoria, parole di verità e silenzi a destra
Non è stata solo formale la celebrazione del Giorno della memoria. Non lo è stata nemmeno nelle sedi istituzionali più alte, dove è pur sempre presente il rischio che la cerimonialità di maniera neutralizzi la forza tragica degli eventi, e che il sordo lavoro del tempo trascorso ne appanni l’orrore.
Quest’anno, poi, il passaggio appariva particolarmente delicato, data la presenza alla giuda del governo di forze e persone che appartengono a una storia altra, e opposta, rispetto a quella di chi quel «male assoluto» combatté a viso aperto, e trasformò la propria vittoria nel patto costituzionale che ha garantito la nostra democrazia.
La tentazione di un atteggiamento reticente avrebbe potuto farsi strada. E invece, nel discorso del Presidente Mattarella, alcune cose forti, e chiare, sono state dette.
Intanto è stato affermato con chiarezza che quell’abisso infinito e tuttora in gran parte insondabile che fu Auschwitz non fu affatto un incidente della storia, una ventata di follia omicida, ma affonda le radici, e si presenta come diretta e in qualche modo inevitabile conseguenza di un’ideologia e di un progetto politico che si chiama Fascismo e Nazismo.
Un modo di concepire la storia, la società, sé e gli altri, dominato da un principio di sopraffazione e di auto-affermazione spinto fino alla negazione di ogni umanità. In questo il Presidente è stato chiarissimo quando ha affermato che «il sistema di Auschwitz e dei campi ad esso collegati fu l’estrema, ma diretta e ineluttabile, conseguenza di pulsioni antistoriche e antiscientifiche, di istinti brutali, di pregiudizi, di dottrine perniciose, di gretti interessi, e persino di conformismi di moda».
E, a scanso di equivoci, ha dato un nome alle «tossine letali» che hanno prodotto quell’orrore, e che si chiamano «razzismo, nazionalismo aggressivo e guerrafondaio, autoritarismo, culto del capo, divinizzazione dello Stato» – ovvero gli ingredienti più propri del fascismo, di ogni fascismo, quale che sia il tempo e il nome che si dà.
Né si è stati reticenti, in quest’occasione, sulle responsabilità collettive che permisero al «male assoluto» di installarsi nel cuore d’Europa e compiere sistematicamente e capillarmente, il proprio lavoro di morte.
Lo sterminio non porta solo la firma dei pochi capi criminali – Mussolini e Hitler in primis, a contendersi il primato della violenza e dell’orrore – che apposero le proprie firme sotto la sentenza di condanna a morte dell’umanità. Essi poterono contare sulla complicità di molti, di troppi, sul loro silenzio, sulla loro adesione, sul conformismo e sull’egoismo di tanti, sulla disponibilità al servo encomio e al codardo oltraggio, per arraffare un posto, una carica onorifica, un favore dai potenti.
Nel rendere onore a quegli italiani che seppero ribellarsi a tutto ciò, e che pagarono a caro prezzo per questo, ha aggiunto Mattarella, «non possiamo sottacere anche l’esistenza di delatori, informatori, traditori che consegnarono vite umane agli assassini, per fanatismo o in vile cambio di denaro».
Ed è stata una liberazione, questo passaggio, rispetto al retrogusto dolciastro di troppe auto-assoluzioni dalle colpe storiche che il nostro Paese porta sulla propria coscienza collettiva; alla retorica degli «italiani brava gente», col conseguente rifiuto di assumere, e riconoscere, le proprie responsabilità: primo passo per non ricadere in quell’abisso morale.
Quando ci si ricorda che «il terribile meccanismo di distruzione non si sarebbe messo in moto se non avesse goduto di un consenso, a volte tacito ma comunque diffuso, nella popolazione», si dice proprio questo: che l’apatia e l’indifferenza dei popoli di fronte alle potenze del disumano scatenate da capi criminali li rende responsabili.
Quando si afferma che «la Repubblica di Salò fu alleata e complice dell’occupante nazista» e che «dopo i drammatici fatti seguiti all’8 settembre del 1943, le milizie fasciste parteciparono alla caccia degli ebrei», si traccia una linea ben netta, nel corpo stesso del Paese e nella sua storia.
Se un senso il giorno della memoria ce l’ha, questo non può essere che quello di una forte, intransigente interrogazione su noi stessi, sul nostro passato ma anche sul nostro presente: sulle diffuse tracce di orrore che ci circondano, e che in parte anche s’insediano nella nostra stessa comunità nazionale; sul rischio che gli antichi vizi riemergano, e cancellino le fragili virtù che abbiamo scritto nella nostra Carta costituzionale. La frase di Liliana Segre, pronunciata qualche giorno fa, in cui esprimeva tutto il proprio timore, e pessimismo, sulla possibilità che «tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga soltanto tra i libri di storia e poi più neanche quella», ci dice quanto grave sia il pericolo, e quanto impegnativo sia il compito, per ognuno, di smentire quella profezia.