Il capitalismo ama gli stipendi bassi, l’esempio di lotta di Francia e Inghilterra che l’Italia dovrebbe seguire

Fausto Bertinotti  il Riformista 30 Gennaio 2023
Il capitalismo ama gli stipendi bassi, l’esempio di lotta di Francia e Inghilterra che l’Italia dovrebbe seguire
In Europa, nel disinteresse generale della politica italiana, si sta riaccendendo il conflitto sociale e, in particolare, proprio il conflitto di lavoro. Ne sono protagonisti, per ora, le lavoratrici e i lavoratori dei due paesi che hanno costituito l’asse politico-istituzionale della sua costruzione e che ne restano, anche divisi, i grandi protagonisti: l’Inghilterra e la Francia.

 

Se si guarda, più in generale, al rapporto tra il conflitto sociale e le politiche economiche dei governi europei si evidenziano immediatamente le ragioni per una potente ripresa della contesa e vengono alla luce realtà di lotta in atto rilevanti, come i vuoti acuti che permangono, la necessità di colmarli e ciò che, seppure in maniera insufficiente, si muove in questa direzione con esperienze sociali interessanti quanto ancora isolate.

Intanto, si può partire da una considerazione che viene proposta dal campo dell’avversario di classe. Riguarda gli Usa ma è una lezione generale. Si constata che la dinamica salariale è cresciuta molto meno delle aspettative ed ecco il commento: “È il segnale più atteso dai mercati e anche dalla Fed per cominciare a sperare in un calo dell’inflazione”. È più che una confessione. Questo capitalismo, per proseguire la sua corsa, ha bisogno di bassi salari, di assenza del conflitto per rompere la gabbia e di una dittatura delle compatibilità per consolidarla. Per ottenere lo scopo deve anche reclutare lo Stato e portarlo al suo servizio, anche come gendarme. Nel Regno Unito è all’ordine del giorno una legge antisciopero nel pubblico impiego.

Ed ecco la ragione. Per definire la nuova condizione in cui versa la società capitalista, è stato coniato negli Usa il nuovo termine permacrisis. Per definire il nuovo aspro conflitto che ha investito l’Inghilterra a Natale è stato, anche a questo proposito, inventato il nuovo termine strikemas: dà l’idea del livello dello scontro. Il Corriere della Sera ha titolato: “Il Natale inglese sembra cancellato: scioperi negli aeroporti, sui treni, negli ospedali, alle poste. Londra si ferma. E nasce una nuova parola: strikemas”.

Dopo la pausa natalizia, sono ripresi gli scioperi, dai treni ai controllori dei passaporti in aeroporto, ai conducenti di ambulanze, agli operatori dei pronto soccorso. La questione sul tavolo, la rivendicazione centrale, è sempre la stessa, l’adeguamento degli stipendi, dei salari al caro vita. Dall’antica culla delle Unions viene un messaggio che rompe molte vulgate del nostro tempo qui da noi così diffuse: scioperare si può, il salario si propone come grande questione sociale, economica e politica.

In Francia lo scorso 19 gennaio c’è stata la prima giornata di sciopero generale proclamata da tutte otto le principali centrali sindacali, a partire dalla Cgt. È stata una manifestazione di lotta imponente. Hanno scioperato, con partecipazioni assai elevate gli insegnanti, i trasporti, la sanità, i sevizi, le raffinerie, le stazioni di servizio. Le grandi città sono state paralizzate da grandi manifestazioni popolari. Si calcola che più di due milioni di persone siano scese nelle piazze di Francia, quattrocentomila a Parigi, cinquantamila a Bordeaux, centoquarantamila a Marsiglia e così via.

La sfida del governo Macron è raccolta. La sua legge che vorrebbe alzare l’età pensionabile da 62 a 64 anni diventa, ancora una volta, il terreno di scontro tra il governo e i lavoratori. Di nuovo, come qualche anno fa, quando uno straordinario movimento di popolo, riuscì a fermare il governo, con una progressione che è andata dal conflitto di lavoro, al conflitto sociale, a quello di popolo.

In Italia, intanto, nel rovesciamento del conflitto di classe, il salario continua a essere una pura variabile dipendente, il ventre molle del sistema. Non c’è solo il lavoro nero, il lavoro sottopagato, la precarietà che funziona come ricatto sulla prestazione lavorativa e sulle retribuzioni, c’è un sistema economico e produttivo che pretende di funzionare, sempre sui bassi salari. I dati forniti dal “Forum disuguaglianze e diversità” lo dimostrano incontestabilmente. A questa condizione è stata piegata la stessa struttura contrattuale. Ci sono i contratti scaduti da anni, ci sono i contratti pirata, ci sono 6,8 milioni di lavoratori senza protezione da una maxi inflazione che divora i loro salari. Non si può sostenere che l’aumento delle retribuzioni metterebbe in crisi le imprese quando l’aumento dei dividenti di un trimestre del 2022 è stato del 72,2% rispetto a quello dell’anno precedente, mentre quello dei salari è stato solo del 3,7%.
Lo sciopero e la rivendicazione salariale non sono il passato, senza di loro non c’è presente né futuro per le lavoratrici e per i lavoratori. Il soldo, oggi necessario alle popolazioni lavorative, ha anche altri nomi oltre al salario, allo stipendio, alla pensione. Si chiama anche salario minimo garantito, reddito di cittadinanza. E la lotta sociale ha anche altri nomi, oltre allo sciopero. Si chiama autogestione, occupazione di posti liberati, mutuo soccorso, gratuità di formazione, socialità e tanti altri ancora.

Bisognerebbe saper far vivere, in una convergenza costruita nelle diverse esperienze, una coalizione capace di forza e di conquista. “Io sciopero, tu occupi, lei, lui contesta, noi boicottiamo, loro si autogovernano, ecc.” “Marciare divisi e colpire uniti” è stato uno slogan del sindacalismo italiano, per altro neppure di un sindacato di classe. Potrebbe tornare utile. Ma se si cominciasse da un momento di rottura con l’attuale cattiva pratica che subisce il cattivo corso del processo in atto? Lottare si può. Un vero sciopero generale, uno sciopero generalizzato, aprirebbe molti spazi alla contestazione del disordine che ci imprigiona. Non è più il tempo del “faremo come la Russia” ma fare come la Francia e l’Inghilterra sarebbe, oggi, una buona idea.

 

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