Donzelli “uno che funziona”. Comiziante ma dal pensiero corto

Concita De Gregorio La Stampa 2 febbraio 2023
Donzelli e la politica in stile Erasmus: il Parlamento come un reality show
L’ascesa del braccio destro di Meloni: lo mandano in tv con risposte già scritte perché «funziona», ma gestire un governo non è l’occasione per fare numeri a effetto tirando fuori carte riservate

Più di tutto mi entusiasma la storia del trilocale con cucina in comune, tipo studenti fuori sede: si dividono le bollette, la spesa dei surgelati, si fa a turno, in bagno va prima chi deve uscire per primo e all’odore del caffè ci si trova spettinati lì davanti ai fornelli – in mutande, in pigiama – e si fanno due parole. Senti ma questa storia di Cospito? E niente dice che era d’accordo coi mafiosi. In che senso? Sì, ho visto le carte, le intercettazioni: due della camorra e della ‘ndrangheta amici suoi, si mettevano d’accordo.

Veramente, fa’ vedere. Così, fra uomini di governo della cerchia stretta del primo ministro. Fra gente custode di segreti di Stato che maneggia i dossier come fossero gli appunti di estimo, dai che ti do i miei così fai bella figura, o gli screenshot dei messaggini della morosa, guarda che mi ha scritto, leggi leggi. (Qui, per tranquillità delle rispettive famiglie, tocca precisare che non è da intendersi in senso letterale, questo fatto delle morose che di certo i coinquilini non hanno: è un esempio di fantasia).

Non si capisce niente della politica romana senza avere contezza della toponomastica degli alloggi, delle convivenze, di chi incontri la sera nell’androne: un cardinale, un portavoce, la popolarissima trans del terzo piano – come fu nel caso di una deputata veneta timorata di Dio che, un paio di legislature fa in zona Pantheon, finì per condividere le cene tardive con la Lori che di politica, per via delle frequentazioni diurne in pausa pranzo delle Camere, ne sapeva più di lei e la istruiva. Amiche del cuore, tuttora.

Qui siamo invece nel rione Monti, dove aveva casa Napolitano: pieno centro di Roma a un passo dal Quirinale. Donzelli e Andrea Delmastro, già avvocato di Giorgia Meloni ora sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri (Dap, dipartimento amministrazione penitenziaria), vivono insieme nell’appartamentino ed è per questo, bisogna mettersi nei panni, che sanno tutto uno dell’altro e si danno cameratescamente, avverbio doppiamente appropriato, una mano. L’intimità dei piccoli spazi.

Non lo conoscevo, Giovanni Donzelli. Non di persona, intendo: solo per le sue gesta e la sua fama. Braccio destro amatissimo da Giorgia Meloni, mandato in tv dal partito in qualsiasi occasione per le sue doti di comunicatore – svelto, logorroico nella versione accelerata del comiziante, non in quella dolente del pensatore, uno di quelli che alza il tono di voce per non mollare la parola e non la molla, difatti.

Per questo lo mandano avanti, mi avevano spiegato: ha pure una faccia simpatica, un po’ da topino dei fumetti, funziona. «Funziona» è la parola definitiva che chiude ogni discussione, nel mondo della comunicazione: non c’è da chiedersi ma di cosa sa, che competenze ha. Non importa: funziona.

Me lo sono trovata di fronte qualche sera fa in uno studio tv, ridente e a suo agio in dolcevita da esistenzialista francese – quella adottata da Giuseppe Conte nel suo nuovo ruolo di leader della sinistra, va molto pure a destra: anche gli estremi estetici, come gli altri, si toccano – e per prima cosa mi ha detto di avere un nonno partigiano.

Chi non ha un nonno partigiano, fra i toscani e gli emiliani, ho risposto pensando ad Alessandra Borgonzoni: anche lei aveva esibito lesta al nostro primo incontro il suo quarto di nobiltà. Poi mi ha detto che quando si è iscritto al Fuan suo padre aveva pianto (in altre versioni, ho letto, è stata la madre a piangere: qualcuno avrà pianto).

Il nonno si sarà rivoltato nella tomba, ho replicato. Lui ha sorriso ed è passato ai figli: due preadolescenti adorati. Terminate le informazioni familiari ha tirato fuori dalla tasca dei foglietti di appunti a cui lì per lì non ho fatto caso: in tanti si preparano i dati che non mandano a mente.

Invece, ho scoperto nella successiva conversazione, gli appunti contenevano quello che Donzelli avrebbe risposto a prescindere dalla domanda. Come fanno appunto certi studenti furbi sperando che il prof sia in fase di digestione post-prandiale: le mirabili conquiste della missione in Libia di Giorgia Meloni (ma scusi, stavamo parlando di stipendi degli insegnanti, di gabbie salariali), i dati sui migranti (ma dicevamo della giustizia) fino a che non è arrivato a Cospito definendolo terrorista, così dicevano i suoi appunti.

C’è stata allora qualche tensione nel dialogo al termine del quale, finita la diretta, con mia grande sorpresa per assenza di reciprocità, ha detto: grazie, mi sono trovato benissimo.

Sulla vicenda politica scatenata da Donzelli e sulla sua gravità ha scritto qui ieri Annalisa Cuzzocrea e non c’è molto da aggiungere. L’inadeguatezza, l’analfabetismo istituzionale, la classe dirigente venuta giù con la piena per via del fatto che il successo elettorale è stato tale da raccattare tutti: vecchi camerati, professionisti di fiducia amici di famiglia e parenti, dirigenti locali di dubbia solidità. Ma è successo a tutti: non è che la sinistra abbia brillato per selezione della classe dirigente, negli ultimi anni, per non parlare del Movimento Cinque stelle. Quando si vince si imbarca chi si vuole, ci mancherebbe, chi c’è c’è.

Quindi benissimo Donzelli, che a 47 anni ne ha già quasi trenta di militanza politica: non un novellino. Diploma di liceo scientifico, quindi uno che diciamo ha anche studiato. Rapido a capire da che parte stare, a fianco di Meloni da tempi non sospetti – uno che ha rifiutato un ministero, perbacco, pur di stare in Parlamento. Ora però resterebbe da chiarire che un conto è fare il responsabile organizzazione del partito, il commissario a Roma: l’uomo di via della Scrofa, insomma, che dalle stanze che furono di Almirante governa il caos degli arrembanti al successo insperato.

Un altro è fare il vicepresidente del Copasir, invece, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, cioè di tutti quanti, compresi quelli che vanno a vedere se un detenuto è vivo o mezzo morto giacché compito dello Stato è tutelare tutti, non fare giustizia sommaria, vendicarsi o rispondere a brigante un brigante e mezzo.

Gestire un governo non è un reality, non è l’occasione per fare il numero dallo scranno usando carte giudiziarie riservate (utili a qualche indagine, probabilmente, e così rese inutili) come cartucce per battute a effetto. Non è una comparsata in tv, per quanto funzioni nel circo a perdere di chi urla di più. Non è nemmeno un Erasmus, non è la versione romana dell’Appartamento spagnolo.

Ma scusa, dimmi meglio: quindi questo Cospito è in combutta coi mafiosi? Eh, guarda qui, leggi. No, davvero. Non funziona così e non è un tema di scontro fra opposizioni e governi: è a tutela di tutti, garantire le regole uguali. Perché poi la ruota gira, gira sempre: non sai mai se sarai sopra o sotto domani. Meglio che ovunque tu sia nessuno ti spinga un piede sulla testa. È facile fare gli sbruffoni dall’alto. È auspicabile che nessuno lo faccia con te quando sei in basso. È così che, anche all’asilo, funziona un gioco che funziona.

 

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