Anche Cospito pesa sul voto regionale

Stefano Folli La Repubblica 5 febbraio 2023
Anche Cospito pesa sul voto regionale
Quasi tutto quello che sta avvenendo a Roma e dintorni, dal caso Cospito in avanti, va letto con il filtro delle prossime elezioni regionali.

Si vota tra una settimana, come è noto, in due delle maggiori regioni italiane, Lombardia e Lazio, e la tensione politica è inasprita dall’intreccio con la campagna elettorale. Non ne esce bene soprattutto la coalizione di governo, perché su certi temi che toccano le istituzioni è sua la maggiore responsabilità.

E se dall’opposizione qualcuno cerca la rissa, è un suo diritto: la sponda governativa avrebbe il dovere — e anche l’interesse — di non cadere nella trappola. Ieri la presidente Giorgia Meloni ammoniva ad abbassare i toni, «cominciando da Fratelli d’Italia», ma l’invito sarebbe stato più efficace se fosse arrivato due o tre giorni fa. Invece Delmastro e Donzelli hanno avuto agio di indirizzare una pioggia di frecce sempre più acuminate verso il Pd. Si dirà: è una normale, benché vivace, dialettica politica. Del resto, nemmeno il centro-sinistra è stato leggero.

A questi argomenti si possono opporre un paio di obiezioni. La prima è appunto l’incombere delle elezioni, sia pure parziali. È un vizio antico della politica italiana quello di lasciarsi distrarre dagli appuntamenti elettorali. L’idea è che il dibattito pubblico, da lunedì 13 in poi, sarebbe condizionato oltremisura dal risultato uscito dalle urne. Le previsioni dicono che Fontana a Milano e Rocca a Roma sono più o meno largamente favoriti.

Ma si vede che in qualche palazzo romano non tutti sono convinti. Si teme forse qualche sorpresa, magari nel Lazio, territorio privilegiato della premier? Difficile dirlo, ma certo un dato più magro delle aspettative innescherebbe parecchio nervosismo. Da un lato, Giorgia Meloni ha bisogno di tacitare i suoi alleati: vedi il disegno leghista dell’autonomia regionale, peraltro tutto da definire e da calare nella realtà. E dall’altro lato la premier sa di dover riaffermare a ogni piè sospinto la sua leadership, ossia la vera e forse sola garanzia di stabilità e durata del suo governo.

Ecco allora lo spazio di manovra lasciato in un primo tempo a Delmastro e Donzelli, poi richiamati all’ordine: segno che a Palazzo Chigi qualcuno ha deciso che era ora di spegnere il fuocherello. Nel frattempo — ed è il secondo tema — la minaccia anarchica è stata un po’ ingigantita. Guai a sottovalutare i fenomeni di intolleranza violenta, anche quando sono episodici e assai minoritari. Ma per fortuna non siamo, o non dovremmo essere, alla riedizione degli anni di piombo.

Per cui invocare l’unità contro l’eversione ha senso se ci si appella alla misura e al buonsenso generale. In tal caso, però, è inutile e anzi pericoloso accendere i fuochi con l’idea di estinguerli al momento opportuno. Lo stile di governo, quando si ha circa il 30 per cento dei consensi, non può essere il prosieguo dello stile d’opposizione con altri mezzi.

A sua volta il centro-sinistra non può credere davvero di indebolire l’esecutivo che ha vinto le elezioni, fino a metterlo con le spalle al muro, attraverso azioni estemporanee che spesso si esauriscono insieme alla cronaca dei giornali. Occorre qualcosa di più lungimirante, anche dopo la domenica elettorale. Rimane il punto di fondo.

Il vero rischio per il governo Meloni è il frullato della quotidianità, il non riuscire a esprimere una visione e scelte di medio termine. La presidente sembra esserne consapevole, soprattutto nel campo della politica estera ed europea, ma non è detto che riesca a trasmettere le sue intenzioni all’opinione pubblica.

In passato ci sono riusciti in pochi. E l’opposizione fa di tutto per tenerla ancorata al giorno per giorno. È una tattica consumata e ha diritto di attuarla, così da dimostrare che la destra non sa governare. Ma anche il centro-sinistra avrebbe interesse a non lasciarsi ingabbiare troppo a lungo nel caso Cospito e nelle polemiche sul 41 bis.

 

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