Giannini, La presidente, gli squadristi e il nemico immaginario

Massimo Giannini La Stampa 5 febbraio 2023
La presidente, gli squadristi e il nemico immaginario
Se fossi un elettore di destra, non sarei troppo contento del mio governo. La mia leader in campagna elettorale mi aveva illuso con quel promettente avviso ai naviganti: «Se vinciamo noi, è finita la pacchia».

 

Dopo cento giorni di governo, la mia presidente del Consiglio mi ha spiegato che però «bisogna fare i conti con la realtà». E poi mi ha richiamato all’armi, in orbace nero-fascio ritinto in rosso-garibaldi: «Qui si fa l’Italia o si muore». E a me è rimasto questo filo di inquietudine, quest’ansia da prestazione insufficiente.

Che io sia stato suo camerata dagli esordi nel Fronte della Gioventù, suo giovane follower all’epoca dei raduni di Atreju o suo sostenitore moderato in questo tempo di passioni tristi. Per adesso, trascorsi più di tre mesi a confutare e congetturare nell’agognata stanza dei bottoni, mi pare che si stia già un po’ morendo, mentre di fare l’Italia non se ne parla proprio.

Certo, c’è la floscia bandierina identitaria dell’Autonomia differenziata, ci sono i 15 decreti-lampo varati dal 22 ottobre, c’è la retorica tronfia delle “100 azioni in 100 giorni”, la postura muscolare da wrestler staraciano, “contro la Mafia”, “contro l’illegalità”, “contro le Ong”, e poi la vacua “volontà di potenza” spacciata per traguardo raggiunto, tra un «abbiamo ridato dignità all’Italia nel mondo» e un «abbiamo salvato l’ergastolo ostativo».

Paccottiglia per la bassa propaganda, innocenti evasioni psicotrope da “Fascisti su Marte”, facilmente smascherate su queste colonne da Lucia Annunziata, che ci ricorda le uniche “cose nuove” fatte davvero fino ad ora (a parte gli sgravi anti-crisi energetica ripresi dalle manovre draghiane): la stretta al reddito di cittadinanza, i dodici condoni fiscali, la tassa piatta estesa per le partite Iva, l’innalzamento del tetto al contante.

Per il resto, svariate e sguaiate retromarce su Roma. E una stupefacente sequela di intemerate e intemperanze. Dunque, al fondo, una sensazione disturbante di casino che si insinua nella destra in sé e nella destra in me, ipotetico fan della Sorella d’Italia, sedotto dalle stentoree virtù decisioniste della “Ducia liberale” (come la definisce Giuliano Ferrara) o del “capriccio della Storia” (come si definisce lei stessa): ah Giò, che volemo fa’?

La bufera sulla premiata ditta Donzelli&Delmastro è solo l’ultima della serie, che era cominciata subito con il pasticcio del decreto-rave ed era proseguita con l’intoppo del decreto sicurezza, il disastro delle accise sui carburanti e il caos sulle intercettazioni. Ma mentre quelle di prima facevano sorridere, questa fa rabbrividire.

Qui non c’è solo una sgrammaticatura lessicale, come ne abbiamo già sentite tante: le smargiassate di Urso con i benzinai, le sparate di Crosetto contro la Bce, le scivolate di Valditara sull’umiliazione degli studenti, le boiate di Sangiuliano su Dante, fino ad arrivare alle pasquinate repubblichine di La Russa, capace di condannare le leggi razziali mentre nel salone di casa venera il busto di Benito che le impose.

Qui, viceversa, c’è una vera e propria rottura istituzionale. Il modo in cui la fratellanza italica ha gestito il caso Cospito è un concentrato dei peggiori vizi di certa destra nazionale: analfabetismo giuridico e squadrismo costituzionale, furia ideologica e spregiudicatezza politica.

A prescindere da come la si pensi su Cospito, sui suoi delitti e sulle sue pene (e io ne penso male), qui il problema è un altro: la vicenda di un detenuto che può morire per sciopero della fame è stata cavalcata per fare due “operazioni” di rozzo marketing politico. La prima operazione è vergognosa: appioppare all’apposito Pd lo stigma del fiancheggiamento all’anarchismo, al terrorismo e alla criminalità organizzata.

Ora, la lista delle colpe politiche di quel partito esanime è infinita e forse non starebbe in un elenco telefonico. Ma questa proprio non si può sentire. Sul finire dei terribili ’70 Rossana Rossanda ebbe il coraggio di ammettere che le Br facevano parte dell’album di famiglia della sinistra.

Ma oggi metterlo sul banco degli imputati per collusione con terroristi e mafiosi è un’accusa infame e miserabile. Tanto più se è rivolta a un fronte politico che in quella “guerra civile” sacrificò Aldo Moro e Pio La Torre, e ancora di più se a rispolverare la requisitoria dell’odio sono i nipotini del fronte opposto, che offrì manovalanza alle stragi di Stato, dall’Italicus alla Stazione di Bologna.

La seconda operazione è pericolosa: alimentare nel Paese un clima di allarme, di tensione e di eversione, di cui onestamente c’è poca traccia e non si sente il bisogno. A meno che, come scrive Massimo Cacciari, non si voglia prendere per vera la furbizia paranoide di chi camuffa da nuovi e sanguinosi “anni di piombo” i pur gravi atti di violenza perpetrati dalla galassia anarchica (le scritte sui muri, i manifesti contro Mattarella, le aggressioni alle ambasciate, le molotov contro le auto della Polizia).

Invece sta succedendo esattamente questo. La destra-destra manganella il Pd che affoga e istiga le piazze che ribollono. Quasi che avesse bisogno dei disordini per nutrire nel Paese la fame di Donna Forte. La quale, intanto, prima tace e lascia fare. Poi replica, ma non arretrando di un solo millimetro dalla “linea gotica” tracciata dai suoi rabbiosi luogotenenti. O addirittura irrorando con altre gocce di benzina i focolai di rivolta che covano. In Germania, Meloni rifiuta la domanda del nostro Ilario Lombardo, che le chiede lumi sul caso Donzelli&Delmastro.

Il giorno dopo, con una lettera al Corriere della Sera, contesta il diritto dei giornalisti di fare domande, e per il resto benedice tutto. Giustifica l’operato dei suoi baldi giovani che, pur brandendo le parole come i manganelli di Balbo e Arpinati, non hanno violato alcun “segreto” e dunque per loro non esistono “in alcun modo i presupposti delle dimissioni”. Mente sulle notizie riferite da Donzelli “già anticipate dai media”, perché il suo parlamentare in Aula ha fornito date, nomi dei boss e colloqui tra virgolette, mentre su Repubblica Lirio Abate aveva scritto solo di un Cospito che genericamente «parla con tre mafiosi nell’ora d’aria».

Conferma punto per punto l’attacco all’opposizione, alla “singolare indignazione” del Pd, alla “visita a Cospito” dei suoi “autorevolissimi dirigenti”, alla “richiesta di revoca del 41 bis”. Insomma, dà piena copertura politica sia al vulcanico Donzelli che alla Camera squaderna informazioni “non divulgabili” secondo il Dap, sia al solito Delmastro che crocifigge gli “inchini a Cosa Nostra” di Orlando e Serracchiani, sia al sottosegretario Fazzolari che li incalza sul loro “silenzio così assordante”.

Il paradosso è che dopo aver ridato fuoco alle polveri la premier invoca l’intervento dei pompieri. «Perché i toni si sono alzati troppo», perché «dobbiamo stare tutti uniti», perché «l’Italia è sotto attacco».

Anche qui, sia chiaro: la rete anarco-insurrezionalista va attenzionata con serietà e se occorre va colpita senza pietà. Ma per ora non risultano sacchi di sabbia alle finestre e cavalli di frisia agli angoli delle strade. E se la “minaccia” è lo sparuto drappello di manifestanti che abbiamo visto ieri, la notizia dell’imminente “morte della democrazia” appare largamente esagerata.

E allora, perché questa bagarre che alterna vecchi cascami da Strapaese a nuovi proclami da junta sudamericana? Un’ipotesi è che la premier non solo sia al corrente, ma sia anche alla regia di questo storytelling da regime assediato.

Perché è la sua natura post-missina, perché la famosa “pancia del Paese” in fondo brontola sempre da quella parte, perché ci si abitua a costruire un nemico sia quando si vola nello stormo dei “gabbiani” di Colle Oppio sia quando si atterra a Palazzo Chigi col picchetto d’onore, perché ci sono le elezioni regionali in Lazio e in Lombardia. Un’altra ipotesi è che invece le situazioni le sfuggano di mano. Che lei non riesca a tenere sotto controllo un partito sgangherato e impreparato.

Che tra i suoi “patrioti” la somma dell’incompetenza e dell’arroganza, coniugata al dilettantismo e al vittimismo, riveli una fragilità strutturale e produca un’indecisione sistemica, alle quali si supplisce solo con gli appelli securitari, le chincaglierie legge-e-ordine, i richiami della foresta, le fughe in avanti, i salti nel cerchio di fuoco.

Il caso Nordio è il paradigma. Da tre settimane sdottoreggia su una riforma della giustizia che ancora non esiste e forse non esisterà mai. Vaneggia su modifiche dell’ordinamento (dalla separazione delle carriere al bavaglio all’informazione) di cui non risultano decreti o disegni di legge scritti.

Da ultimo, per salvare i soldati Donzelli&Delmastro, il Guardasigilli sforna un parere che è un capolavoro di ambiguità, sufficiente alla premier per assolverli: i due compari hanno propalato documenti “sensibili” ma a “divulgazione limitata”, qualunque cosa significhi. Possiamo accontentarci di questo? La palla in tribuna, ancora una volta, mentre sul campo impazza la pugna degli arditi?

Torno alla questione iniziale. Se fossi un elettore della destra, di una destra repubblicana e costituzionale, io sarei insoddisfatto e insofferente. Vorrei che “La Presidente” non si ritrovasse come quella raccontata per Sellerio da Alicia Giménez Bartlett nel suo ultimo romanzo, cioè “una balena arenata, né più né meno, immensa e distesa sulla sabbia…”. Vorrei che prendesse finalmente il mare.

Che facesse qualcosa. Magari proprio “qualcosa di destra”, cioè che usasse la sua leadership per decidere, rimettendo in riga i casinisti al governo e i tafferuglisti nel partito. Che prendesse in mano il destino suo e quello dell’Italia, come ha giurato il 25 settembre, guarendo finalmente dai suoi mali: dalla livida “sindrome dell’underdog” alla cupa “vocazione minoritaria”.

Ma dopo questi tumultuosi 100 giorni, avrei il sospetto di essere a mia volta in netta minoranza, perché il grosso dei suoi elettori questa destra-destra continua a preferirla così: rissosa e provocatoria, irriducibile e irresponsabile. Prigioniera di se stessa, dei suoi miti, dei suoi fantasmi. Compresa la Buonanima, che diceva “meglio uno squadrista che venti filosofi”.

 

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