Lucio Caracciolo La Repubblica 7 febbraio 2023
La geopolitica del cataclisma in Turchia
Il terremoto può cambiare anche l’esito delle elezioni di maggio in cui Erdogan chiede un nuovo mandato
Lo spaventoso terremoto che ha colpito la Turchia, insieme a gran parte del Levante, ha mosso di tre metri la geografia dell’Anatolia. Ed è stato percepito financo in Groenlandia. Evento geofisico straordinario, da cui potrebbero derivare altrettanto importanti conseguenze geopolitiche. Dalla risposta al sisma dipende in buona parte l’esito delle elezioni che a maggio potrebbero riconfermare Recep Tayip Erdogan al vertice della Repubblica Turca oppure segnare la fine del suo regno ormai ventennale. Se Erdogan fosse spodestato dal voto popolare — ciò che fino al terremoto appariva improbabile — i riflessi sulla regione sarebbero rilevanti. La Turchia è infatti da sempre chiave degli equilibri levantini e mediorientali, oggi soprattutto del Mar Nero, dove appare l’unico mediatore capace di contribuire alla futura tregua fra Russia e Ucraina, quando mai se ne daranno le condizioni.
Anche per questo il reis cerca di “nazionalizzare”, per quanto possibile, la risposta alla tragedia. Decine di Paesi, fra cui Stati Uniti, Cina e Russia, si sono offerti di aiutare nelle operazioni di soccorso. Ma Erdogan vuole dimostrare al suo popolo e al mondo che i turchi ce la faranno da soli, malgrado l’immensità dei danni materiali e la gravità delle perdite umane. Se nel giro di qualche settimana la sua gente si convincesse che la risposta al sisma è stata efficiente, la rielezione del presidente potrebbe assumere contorni plebiscitari. In caso contrario, Erdogan dovrebbe ricorrere a strumenti non ortodossi per evitare l’abdicazione.
Nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno aumentato la pressione sulla Turchia. Per Washington è inammissibile che un decisivo paese atlantico si installi a metà strada fra Russia e Ucraina, cioè fra Mosca e sé stessa.
Specie se questo Stato è esplicitamente revisionista. Erdogan si è lanciato prima in Siria poi in Nordafrica (Tripoli è tornata turca), ha rafforzato la sua influenza nei Balcani di nuovo in ebollizione, venduto i suoi efficacissimi droni all’Ucraina mentre offriva sponda alla Russia, incluso l’Azerbaigian nel suo impero in espansione, minacciato di bloccare l’ingresso della Svezia nella Nato e di attaccare la Grecia (“possiamo arrivare di notte, all’improvviso”) formalmente alleata, di fatto nemica numero uno. La lista potrebbe continuare.
Quel che difficilmente continuerà è la pazienza americana. Ma fino a che punto gli Stati Uniti possono spingersi nel contrastare Erdogan? È possibile immaginare un colpo di Stato organizzato dalle Forze armate con il discreto sostegno americano? Nulla si può escludere, ma sarebbe estremamente rischioso. Il fallito golpe del luglio 2016 invita alla prudenza.
Le alternative elettorali alla riaffermazione del capo supremo sono finora pallide. Se il candidato del Chp, principale partito di opposizione, sarà il grigio Kemal Kilicdaroglu, Erdogan potrà sentirsi abbastanza sicuro. L’unico sfidante che avrebbe potuto forse battere il presidente uscente, il sindaco di Istanbul Imamoglu, è stato neutralizzato dalla magistratura istruita da Ankara, che gli ha inflitto più di due anni di carcere.
All’eventuale sconfitta del reis contribuirebbe certamente la crisi economica e finanziaria, inevitabilmente accentuata dal sisma. La lira ha ripreso a crollare e l’inflazione già altissima (il 57% a gennaio) continua a galoppare, mentre le riserve valutarie declinano. Erdogan è politico scaltro e disposto a tutto pur di restare al potere, considerando anche la rete di affari allestita attorno alla sua famiglia.
Ma prima o poi nel fantasmagorico palazzo presidenziale di Ankara siederà il suo successore. Vedremo allora quanto del protagonismo geopolitico della Turchia fosse dovuto all’espansa personalità di Erdogan, quanto ai “nuovi” turchi. Di certo non c’è oggi al mondo Stato in grado di irradiare tanta potenza su basi economiche, demografiche e territoriali relativamente limitate.