Francesco Bei La Repubblica 10 febbraio 2023
Meloni a Bruxelles, una disfatta diplomatica
Sulle tre partite più importanti – Ucraina, sostegno all’economia, immigrazione – l’Italia torna a casa con un pugno di mosche dopo aver sperimentato a sue spese quanto sia sbagliato il metodo della contrapposizione frontale con gli alleati
L’isolamento politico, e persino fisico, che ha dovuto sperimentare Giorgia Meloni a Bruxelles non è una notizia di cui rallegrarsi. Riporta ai tempi del vertice del 2011, quello delle risatine di Sarkozy e Merkel su Berlusconi nella conferenza stampa finale, assurte a simbolo del baratro di credibilità in cui era precipitata l’Italia.
Non siamo ancora a quel punto, ma la realtà dei fatti smentisce la favola che i coreuti governativi stanno raccontando circa un’Italia che, finalmente, si fa ascoltare in Europa grazie alla prima leader sovranista.
Viene quasi da sorridere ripensando a quattro mesi fa, quando in quel Consiglio europeo arrivava Mario Draghi e gli altri 26 leader facevano silenzio per ascoltarlo. Il tribunale dei social, impietoso, traboccava di foto di Draghi in treno insieme a Macron e Scholz alla volta di Kiev ed effettivamente il paragone è doloroso per la premier italiana.
Specialmente perché la rottura con Francia e Germania avviene sul terreno dove le credenziali personali di Meloni apparivano più solide, ovvero quello del sostegno all’Ucraina resistente contro gli invasori.
Sull’atlantismo la leader di Fratelli d’Italia ha costruito la sua affidabilità internazionale. Su quell’architrave ha tessuto una trama di rapporti internazionali, provando a far dimenticare un passato di sparate scioviniste e anti-europee.
E la manovra sembrava funzionare, potendo giovarsi della debolezza del Ppe e della tentazione dei popolari di cambiare spalla al fucile, passando dall’alleanza con i socialisti a quella con il gruppo dei conservatori dopo le elezioni europee del 2024.
Ma il piano, come si è visto, è pieno di inciampi. E la strada verso una piena legittimazione internazionale del governo della destra appare ancora lunga e difficile.
Di certo, in questa operazione di accreditamento, non hanno aiutato Meloni le due zavorre filo-russe rappresentate da Berlusconi e Salvini.
Emblematica la neghittosità quando non l’aperta ostilità con cui i leader di Forza Italia e Lega hanno accompagnato la prevista apparizione video di Zelensky a Sanremo, vale a dire la possibilità offerta al leader ucraino di parlare direttamente alla quasi totalità del pubblico televisivo italiano.
Il balletto ridicolo delle frenate, delle retromarce, delle condizionalità che la Rai è stata costretta ad opporre al presidente ucraino non può non aver influito sul mancato invito per la cena a tre all’Eliseo. Un format, ha specificato con una punta di malizia Macron, che è stato deciso direttamente da Zelensky, non dai francesi.
Così come non ha aiutato la sorda resistenza opposta per settimane da Forza Italia e Lega all’approvazione di nuovi invii di aiuti militari. Da qui il trattamento di seconda classe che la giornata a Bruxelles, con la corsa affannosa per ottenere almeno una stretta di mano con l’ospite di Kiev, non è riuscita purtroppo a nascondere.
Il fatto che l’Europa, dopo la fase comunitaria – hamiltoniana, come diceva con forse troppa enfasi Renato Brunetta – del Recovery fund e del debito comune stia ora tornando alle vecchie logiche del motore franco-tedesco è una pessima notizia, come dicevamo all’inizio, sia per chi crede nelle istituzioni comuni che per il nostro Paese. Che da queste logiche intergovernative non può che restare schiacciato. Lo dimostra il dibattito sul fondo sovrano europeo, chiesto dall’Italia e già derubricato a petizione di principio.
E lo dimostra l’esclusione dal tavolo negoziale che Parigi e Berlino hanno aperto con gli americani sugli aiuti alle imprese e l’Inflation Reduction Act. Anche sull’immigrazione, altro terreno di un recente scontro con i francesi, siamo fermi alle dichiarazioni di intenti, mentre i Paesi dell’Est procedono a costruire i loro muri.
Il bilancio finale della politica europea del governo è dunque questo: sulle tre partite più importanti – Ucraina, sostegno all’economia, immigrazione – Roma torna a casa con un pugno di mosche dopo aver sperimentato a sue spese quanto sia sbagliato il metodo della contrapposizione frontale con gli alleati.
A Bruxelles funzionano la fluidità di rapporti, la fiducia reciproca, la collaborazione. Fare gli offesi e mettere il broncio non porta a nulla.
Meloni potrebbe chiedere a Matteo Renzi, che nel 2016 al summit di Bratislava si rifiutò di partecipare a una conferenza stampa insieme a Merkel e Hollande per dissensi su economia e immigrazione. Il governo cadde poche settimane dopo sul referendum, ma comunque quel gesto di sdegno non portò da nessuna parte.
La premier l’episodio di Bratislava dovrebbe ricordarselo bene, anche perché in quell’occasione si scagliò contro Renzi e i “tecnocrati” europei, aggiungendo che “la strada da percorrere Fratelli d’Italia l’ha già indicata da tempo: scioglimento controllato e concordato dell’Euro”. Poi si stupiscono se non li invitano.