Il dramma di Zelensky, nessuno invia armi, e nessuno avvia negoziati di pace.

Lucia Annunziata La Stampa 11 febbraio 2023
Le liti tra leader sono un insulto a Zelensky
La situazione è molto seria, e occorre che il/la premier ne prenda atto. Ed è grave non perché mancano gli inviti a cena, e un presidente ha preferito una carrambata con un paio di altri presidenti invece che far fare alla sua diplomazia una lista più “inclusiva” dei bilanciamenti di potere nella vecchia Europa.

 

 

La situazione è molto seria perché, semplicemente, questo viaggio del presidente Zelensky, uscito per la seconda volta in un anno dal suo paese, è certamente coraggioso, ma, ancor di più, disperato. L’aspra aura di questo sentimento decisivo nella vita degli umani, sprigionava dalle rughe profonde, dalla tristezza con cui dal podio europeo ha per l’ennesima volta ripetuto “Slava Ukraini” “Gloria all’Ucraina”, e dalla assenza di ogni facile teatralità nella sua presenza.

L’uomo che ha visitato Bruxelles tre giorni fa, non aveva più nulla del baldanzoso premier per caso che, nei primi mesi della guerra, giocava a interpretare l’erede di Churchill. Il presidente dell’Ucraina Zelensky è un uomo che ha visto tanto, troppo, e oggi siede da solo davanti a un burrone. Un uomo costretto a girare il mondo in video, e ora anche in presenza, per continuare a chiedere. Denaro, medicine, solidarietà, ma soprattutto armi, armi, armi. A un certo punto a Bruxelles per sostenere la sua più recente richiesta – aerei da combattimento – ha detto: «Non posso tornare in Ucraina a mani vuote, non mi è permesso».

Non sono le parole di un “eroe” come, alla ricerca di frasi ad effetto, lo definiscono i leader politici occidentali che sono al suo fianco. Non sono nemmeno le parole di chi vede in lui l’espressione di un coagulo di interessi oscuri – quelli dell’Occidente, della corruzione, dei complotti. Quel «non mi è permesso» è la frase di chi ogni giorno sa che dovrà contare i morti, e dovrà caricarsene il peso.

La sua prigionia è questa disperazione. E tuttavia, allegria brava gente, l’Europa che pure lo ha applaudito e coccolato, gli ha riservato una delle sue migliori produzioni politiche – si è accapigliata sul suo corpo per una cena, per una dichiarazione di accordo, per una posizione in una foto ricordo di gruppo, per un distinguo fra un video e una lettera. Un girotondo di allegri egoismi, ciascuno con un occhio alla propria base elettorale e l’altro a posare bene per la propria biografia futura. Un viaggio che potrebbe essere stato l’ultimo di un uomo, una stretta di mano per decisioni che dovrebbero essere state urgenti, sono rimaste impigliate nel carosello di questi sorrisi, congratulazioni e promesse.

Londra, prima tappa del viaggio europeo del leader ucraino, ha celebrato questa scelta come il rafforzamento della leadership inglese di fatto, anche sull’Europa; la Francia si è infilata sulla rotta Londra-Bruxelles per una tappa a cena, cui si è aggiunto il vicino di casa Tedesco all’ultimo momento, una piccola cosa, una cosa leggera, certo non sufficiente a stilare né un programma, e ancora meno un accordo di massima; l’Italia ha preso in mezzo il presidente Zelensky in una polemica spuria, del tutto estranea, per toni e argomenti, al rispetto per la misteriosa sacralità di una guerra, qualunque sia il lato da cui la si guardi. La conclusione, sopra le righe, ma non meno inutile, è stato il valzer bruxellese, il solito corteo fra gli applausi di un emiciclo che fa un uso tanto eccessivo di sorrisi e buone intenzioni, quanto scarso di decisioni.

Il povero Zelensky porta a casa infatti solo promesse. Il Regno Unito ha fatto capire che è favorevole in tutto e per tutto a quello che vuole l’Ucraina, ma in quanto a inviare i jet da combattimento non ha dato nessuna conferma; uguale esitazione, dopo tanti sorrisi, ha espresso il governo europeo. L’Ucraina è forse nei suoi giorni più bui, ma quello che ottiene continua a essere un aiuto a bocconi, una sorta di rateizzazione della solidarietà, quel che basta a portarla da uno stallo all’altro della sua sopravvivenza. Nessuno invia armi, e nessuno avvia negoziati di pace.

Cosa pensava in tutti questi incontri Zelesky? Cosa avrà raccontato, al suo ritorno, di tutti questi leader europei felici, onorati, che hanno applaudito con le lacrime agli occhi il suo incipit “Gloria all’Ucraina”? E cosa avrà pensato – se avrà pensato qualcosa – dello scontro fra Francia e Italia, sulla lista degli invitati? E come avrà preso il malumore della leader italiana con Macron, quegli occhi freddi, quello sguardo fisso con cui l’italiana manifestava la sua distanza? E come si è ristabilito il contatto fra lui e il/la presidente Meloni? Ci sarà stato magari un «no, scusa non ce l’avevo con te», da parte di lei, e un «ma non è uno sgarbo, guarda davvero è solo capitato” da parte di lui?

Insomma, il dislivello fra le difficoltà dei leader europei, le loro manovre, le loro incazzature reciproche, e il dramma che vive il presidente dell’Ucraina, è talmente ampio da essere non misurabile. La classe dirigente europea ha perso una grande occasione per riflettere e fare un serio bilancio (con colpe attribuite e meaculpa richiesti); e, più banalmente, ha anche perso l’occasione per stare zitta. Poche e serie sono le parole che si usano davanti alla morte – perché in Ucraina (qualunque cosa si pensi di questa guerra) di questo si tratta. In questo contesto, nulla di serio è avvenuto, perché la serietà è quella che è mancata a tutti. Il Titanic, evocato dalla presidente Meloni, insistendo sulle tensioni fra Italia e Francia, non esiste, perché la nave europea, sull’Ucraina, non è mai salpata.

La conclusione del tutto, è del tutto più banale. La lite fra Meloni e Macron non è stata una crisi fra Stati, ma una baruffa davanti a un bar. L’Italia non è fuori dai giochi internazionali, ma il suo governo è spesso fuori di testa. E questo viaggio di Zelensky non passerà alla storia, ma solo alla ennesima cronaca delle disfunzioni europee.

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