Claudio Tito La Repubblica 11 febbraio 2023
L’avvertimento dei leader dell’Unione europea: “Così Meloni farà piccola l’Italia”
Bruxelles avverte del rischio della “tempesta perfetta”: da marzo la riduzione dell’acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce
“Decidere di andare allo scontro con Macron non è stata una scelta smart” (accorta ndr). Il giorno dopo il Consiglio europeo che ha mostrato plasticamente l’isolamento di Giorgia Meloni a Bruxelles, le Cancellerie di mezza Ue iniziano a interrogarsi su quale sia il vero volto della presidente del Consiglio.
Il sentimento prevalente fino a qualche giorno fa si poteva sintetizzare in “scampato pericolo”, ora sta evolvendo in “può diventare un problema”. Così un autorevole esponente diplomatico di un Paese nordico ripete a chiare lettere: “Litigare con Francia e Germania non porta mai risultati. Solo isolamento e irrilevanza”. E lei deve decidere se entrare nel gruppo dei “grandi” o in quello dei “piccoli”.
Il punto è che la leader di FdI si trova sempre su quel crinale sottilissimo tra affidabilità e inaffidabilità. E consegnarsi ad un giudizio negativo è il modo peggiore per tutelare l’interesse nazionale. Lo è semplicemente perché l’Italia per una serie di condizioni oggettive – a cominciare dal debito pubblico – non ha abbastanza forza per contrapporsi agli alleati più strutturati. La stessa Meloni ha raccontato di aver avuto uno scambio proficuo sulla questione migranti con il premier olandese Rutte. Una circostanza che lo stesso Rutte ha giudicato positivamente: “È questo il modo di lavorare in maniera produttiva”.
Ma il resto è tutta un’altra storia. Che fa perno intorno al partito politico dell’Ecr, i Conservatori europei. La premier italiana ieri ha spiegato esplicitamente (parole accompagnate da una serie di smorfie facciali piuttosto eloquenti) che il suo raccordo principale è con i capi di governo di questo gruppo: il polacco Morawiecki e il ceco Fiala. L’opzione “Visegrad” automaticamente la inserisce nel novero dei “piccoli”. Conseguenza: l’irrilevanza. Incapacità di incidere nei momenti più delicati. Un vero e proprio “downgrading” per un Paese che comunque è tra i fondatori dell’Unione, è la seconda manifattura europea e ha un numero di abitanti pari alla Francia.
“Se lei pensa di mettersi alla testa di questo gruppo – osserva il rappresentante di un paese “frugale” storicamente vicino alla Germania – senza nemmeno creare un’intesa con i Popolari, allora sbaglierà di grosso”.
Anche perché con Varsavia e Praga non ci sono interessi convergenti ad eccezione della linea sulla guerra in Ucraina. Dal punto di vista delle convenienze nazionali, l’Italia ha bisogno di confrontarsi e dialogare con la Francia e la Germania. Sbattere i pugni sul tavolo, quindi, non funziona. Non è un caso che fonti diplomatiche francesi ripetano in riferimento all’incontro parigino con Zelenski: “Non si può impedire a Macron di invitare chi vuole. Se avessimo invitato lei, avremmo magari messo in imbarazzo il premier spagnolo e quello olandese”. Appunto, ecco il “dowgrading”.
La via preferenziale con i capi Conservatori, dunque, crea un cortocircuito rispetto all’immagine che Palazzo Chigi aveva tentato di costruire a Bruxelles in questi mesi: dialogo, europeismo e affidabilità. Anche la distanza che costantemente viene messa rispetto al suo predecessore Mario Draghi è orientata in primo luogo a rassicurare il suo elettorato e la sua opinione pubblica più che a coltivare l’interesse nazionale.
La battuta su chi lavorava solo per farsi una foto sembra riferita all’ormai famoso scatto dell’ex premier italiano con Macron e Scholz in treno verso Kiev. Ma quell’immagine era la plastica rappresentazione del cosiddetto “Triangolo”: Italia-Francia-Germania insieme alla guida dell’Unione.
Tutto questo rischia di riflettersi su alcuni dei dossier più delicati che l’Europa dovrà esaminare nel 2023. Gli aiuti alle imprese saranno sul tavolo del consiglio europeo del prossimo mese. L’estensione del ricorso agli aiuti di Stato è però già una sconfitta per l’Italia. Che non potrà pareggiare le risorse che Berlino e Parigi sono in grado di immettere nel tessuto imprenditoriale.
E poi c’è la gigantesca partita della riforma del Patto di Stabilità. Litigare con Francia e Germania significa anche non ricevere aiuto su quel fronte decisivo per il nostro debito pubblico.
Anzi, proprio le casse dello Stato rappresentano il nervo scoperto che tutti gli “avversari” dell’Italia o del premier di turno vanno a sollecitare.
E sta riemergendo. Se la crisi diplomatica con la Francia si dovesse estendere platealmente, quale sarebbe la reazione dei mercati? I tassi sono già in crescita, servono più soldi per finanziare i titoli di Stato. E ancora di più nei prossimi mesi visto che gli acquisti della Bce sono in via di esaurimento.
Il programma App – iniziato nel 2014 – ha già sospeso i nuovi acquisti netti. Il Peep lo farà il prossimo anno. Un problema in più per il nostro Paese. E una possibilità in più per la speculazione. Soprattutto se la lite in Europa fosse permanente. Un’Italia debole politicamente a Bruxelles è anche un’Italia facilmente aggredibile dai mercati finanziari.