Massimo Giannini La Stampa 12 febbraio 2023
I patrioti e l’Europa sul Titanic di Giorgia
Sono soddisfazioni. Zelensky che parla per interposto Amadeus all’Italia che canta e litiga a Sanremo cambia il corso della guerra e imprime alla nostra politica estera una “svolta”.
Naturalmente “storica”, ça va sans dire, come tutte quelle fin qui impresse da un governo che quanto a bolsa retorica patriottarda ricalca le orme di quello gialloverde, che si affacciava dal balcone di Palazzo Chigi per festeggiare l’abolizione della povertà. I nuovi arrivati aboliscono la realtà, e alla fine è più o meno la stessa cosa. È vero, in questi giorni difficili il presidente ucraino ha reso omaggio al Regno Unito, parlando di “coalizione di valori” a Westminster, a Downing Street da Sunak, a Buckingham Palace da Re Carlo.
Si è inchinato all’Europa Carolingia, cenando all’Eliseo con Macron e Scholz, e poi a quella Comunitaria, cantando “Slava Ukraini” al Parlamento di Strasburgo. Ma vuoi mettere, il saluto breve ma intenso al Belpaese, trasmesso questa notte in Eurovisione, e recitato sul palco dell’Ariston dal “bravo presentatore 2.0”, il nuovo Che Guevara de noantri, cresciuto non per caso alle Frattocchie di Claudio Cecchetto? È un successo vero, che ci ripaga di tante amarezze.
La descriveremmo così, se fossimo l’Agenzia Stefani che piace ai Fratelli d’Italia. Invece quella che si chiude indegnamente tra le musiche e i fiori del Festival è purtroppo una settimana nera per l’Italia e per l’Unione. Saremo pure “un po’ provinciali”, come ci rimprovera Giorgia Meloni, a rammaricarci per l’esclusione del nostro Paese dal vertice triangolare di Parigi, e poi anche per la cancellazione dell’incontro bilaterale con Zelensky a Bruxelles.
E saremo pure un po’ “apoti”, come diceva Giuseppe Prezzolini, a non berci il bibitone propagandistico e autocelebrativo sul “significativo cambio di passo” impresso dall’Italia al lento convoglio europeo sul controllo dei flussi migratori. Ma stiamo ai fatti. La cena di Macron con Scholz e Zelensky è stata sicuramente un’inopportuna conventio ad excludendum, nata dalla voglia di grandeur di una nazione che non ha più molte ragioni per nutrirla. Ma riflette anche due evidenze “storiche” (in questo caso sì, il termine ci sta tutto).
La prima è un oggettivo “stato dell’Unione”, che è franco-tedesca o non è: va così dal 1957, non dall’altroieri. La seconda è un soggettivo “stato dell’Italia”, che è da sempre subalterna da diversi punti di vista: economico, strategico, militare. Non aver capito questo, e aver protestato a microfoni aperti durante un Consiglio europeo, dicendo basta alla “diplomazia della pacca sulla spalla”, ha trasformato un piccolo sgarbo personale in un grande strappo istituzionale.
E ha fatto emergere l’ennesimo testacoda tricolore: se da un lato accusi la Francia di aver escluso l’Italia, ma dall’altro dichiari che “non esiste un’Europa di seria A e di serie B”, stai di fatto autocertificando la tua avvenuta retrocessione.
Se siamo in serie B, ormai da una trentina d’anni, non dovremmo piangerci addosso ma allenarci per risalire in A. Non dovremmo raccontare balle a noi stessi, spacciando per un’epifanica “prima volta” di cui rivendicare il merito quello che i 27 ripetono inutilmente dal Trattato di Dublino in poi, cioè che “il problema migratorio si risolve solo a livello europeo”, o che “vanno difesi i confini esteri” o “riconosciuti quelli marittimi”.
E dovremmo ammettere che, se oggi a Bruxelles contiamo ancora meno di prima e siamo guardati con qualche diffidenza in più, un peso ce l’ha lo stigma eurofobico che la nostra destra sovranista si è conquistata sul campo in questi anni, denunciando “l’Europa criminogena” e invocando “l’uscita controllata dall’euro”.
Serve a poco rimestare tra le bugie di Meloni sul Titanic (che ci ammonisce un po’ a sproposito sull’eventuale naufragio europeo nel quale annegherebbero insieme i passeggeri sia di prima sia di terza classe), e le nostalgie di Draghi (che a bordo di quel treno per Kiev insieme a Scholz e Macron nel giugno 2022 ci diede l’illusione di una ritrovata “centralità italiana”). Sono entrambe posticce. Su quel transatlantico si salvarono solo pochi ricchi signori di prima classe, mentre non ci fu scampo per i poveri cristi di terza.
E su quel treno non salì l’Italia, debole dei suoi mali atavici, ma solo Supermario, forte della sua credibilità individuale. Dunque, cara presidente del Consiglio, usciamo dai film dell’Istituto Luce, lasciamo perdere gli editti bulgari riciclati e le vaghe pretese da Minculpop sulla Rai, già trasformata sua sponte nella casamatta del nuovo potere, e diamoci da fare per recuperare posizioni e ricucire lacerazioni. Prima del voto ci aveva annunciato che era “finita la pacchia”, ma non abbiamo ancora capito per chi. Adesso scopriamo che è anche “finita la pacca”, ma non abbiamo compreso cosa la sostituirà.
Con Zelensky, al di là dell’indegno pastrocchio sanremese, scontiamo anche questo: confermiamo da mesi la totale vicinanza al glorioso popolo ucraino, ma da altrettanti mesi assistiamo alle nevralgie russofile di Salvini e Berlusconi, e soprattutto non riusciamo a far votare in Parlamento il sesto decreto sulla fornitura di armi.
Nel frattempo, per liberarci dalla dipendenza energetica da Putin, firmiamo contratti con i suoi amici africani (vedi l’ultimo, in Algeria). Non è il modo migliore di farci apprezzare dagli alleati. Se a tutto questo aggiungiamo il no secco alle richieste italiane sul nuovo Fondo sovrano per gli aiuti di Stato e le ventilate “vendette” da consumare nei sottoscala del Palazzo Justus Lipsius insieme ai polacchi, ai cechi o agli ungheresi, allora il “sommario di decomposizione” dei patrioti è completo.
Ma il bilancio della settimana, come abbiamo detto, è in perdita secca anche per l’Europa. A proposito della guerra, lo hanno sottolineato qui Lucio Caracciolo e Lucia Annunziata. La ragione un po’ sprezzante con la quale Macron ha motivato l’esclusione di Meloni dalla cena all’Eliseo, invece che assolvere, condanna l’asse franco-tedesco. Dire “come sapete, Germania e Francia hanno un ruolo speciale nella questione ucraina da otto anni” non è un vanto.
Semmai è un’onta, se si misurano i risultati nulli o disastrosi raggiunti dal “formato Normandia” che ha negoziato gli accordi di Minsk II nel 2014. E al di là del rito collettivo, degli inni e delle bandiere, cos’ha prodotto di concreto il “valzer bruxellese”? Cosa è uscito dal “carosello di sorrisi, congratulazioni e promesse” tra i leader? Cos’ha portato a casa Zelensky, a parte le photo-opportunity e il carosello di sorrisi, congratulazioni e promesse? Chiedeva altre armi, i caccia M-16 dopo i Leopard II e gli Abrams. Non li avrà. Non per ora, almeno, anche se 130 mila soldati russi sono in marcia verso il Lugansk.
La guerra non sta andando bene. Soprattutto, anche la notizia della morte imminente dell’Orso post-sovietico si rivela purtroppo largamente esagerata. Gli embarghi energetici e le sanzioni commerciali, i blocchi finanziari e i sequestri di beni degli oligarchi hanno certamente colpito la Russia, ma non l’hanno affatto abbattuta. Nicholas Mulder, sul New York Times, ricorda che a marzo del 2022 l’Istituto Internazionale di Finanza aveva previsto uno schianto del 15% del Pil russo entro la fine dell’anno.
Non è andata così: la caduta si è fermata al 3%. E adesso, per il 2023, il Fondo Monetario prevede addirittura una ripresa dello 0,3%, poco meno della modesta crescita dello 0,7% nella Ue e molto più dell’ulteriore crollo dello 0,8% nel Regno Unito. Nonostante il più potente apparato sanzionatorio mai varato su scala planetaria, la Russia dimostra una sbalorditiva capacità di resilienza. In termini di impatto sul Prodotto lordo le tre crisi del 1998, del 2008 e del 2020 hanno pesato infinitamente di più di quella in atto. Le ragioni sono diverse.
A compensare il crollo degli scambi commerciali con EuroAmerica ha provveduto il boom della globalizzazione parallela con Asia, Medioriente, America Latina e Africa. I trader svizzeri che facevano viaggiare dal Mar Nero i cargo carichi di commodities (petrolio, gas, acciaio, fertilizzanti e grano) sono sostituiti da quelli degli Emirati. Le raffinerie indiane e le società di stoccaggio di Singapore fanno affari d’oro comprando greggio russo a prezzi scontati e rivendendolo con ricchi margini sui mercati mondiali.
La Turchia è diventata la principale porta d’accesso per chi continua a vendere prodotti alla Russia, come dimostra il lunghissimo serpente di Tir che ogni giorno si insinua tra le montagne del Caucaso. Attraverso una fitta rete di intermediari, i microchip occidentali continuano ad armare elicotteri e missili dell’ex Armata Rossa. Piccoli paesi come l’Armenia e il Kyrgyzistan rivendono a Mosca beni di consumo di ogni tipo, dagli smartphone alle lavatrici.
Se comparato con i livelli pre-guerra, questo nuovo network di import/export è meno efficiente e più costoso. Ma non sta impedendo al Cremlino di risalire dagli abissi del crac paventato un anno fa. Tanto che Mulder, ragionando sugli effetti della sporca guerra in corso, si pone una domanda retorica: chi sta pagando il prezzo più alto, tra un’economia che vale 200 miliardi di dollari e che ha perso un terzo del suo Pil, come l’Ucraina, e una che ne vale 1.800 miliardi e che si contrae del 3%, come la Russia?
“Gloria all’Ucraina”, dunque. Negli Anni Cinquanta Carl Schmitt descriveva il mondo come conflitto latente tra due blocchi: da una parte “l’universalismo delle potenze dell’Occidente liberaldemocratico e assimilatore di popoli”, dall’altra “l’universalismo dell’Oriente bolscevico e fomentatore delle rivoluzioni planetarie”. Oggi, rispetto ad allora, c’è di nuovo Putin e il suo delirio tardo-imperiale. Ma resta la stessa Europa sospesa, indecisa e divisa. Con in tasca le solite “risposte differenti, di fronte a una differente chiamata della Storia”.
I patrioti e l’Europa sul Titanic di Giorgia
Massimo Giannini La Stampa 12 febbraio 2023
I patrioti e l’Europa sul Titanic di Giorgia
Sono soddisfazioni. Zelensky che parla per interposto Amadeus all’Italia che canta e litiga a Sanremo cambia il corso della guerra e imprime alla nostra politica estera una “svolta”.
Naturalmente “storica”, ça va sans dire, come tutte quelle fin qui impresse da un governo che quanto a bolsa retorica patriottarda ricalca le orme di quello gialloverde, che si affacciava dal balcone di Palazzo Chigi per festeggiare l’abolizione della povertà. I nuovi arrivati aboliscono la realtà, e alla fine è più o meno la stessa cosa. È vero, in questi giorni difficili il presidente ucraino ha reso omaggio al Regno Unito, parlando di “coalizione di valori” a Westminster, a Downing Street da Sunak, a Buckingham Palace da Re Carlo.
Si è inchinato all’Europa Carolingia, cenando all’Eliseo con Macron e Scholz, e poi a quella Comunitaria, cantando “Slava Ukraini” al Parlamento di Strasburgo. Ma vuoi mettere, il saluto breve ma intenso al Belpaese, trasmesso questa notte in Eurovisione, e recitato sul palco dell’Ariston dal “bravo presentatore 2.0”, il nuovo Che Guevara de noantri, cresciuto non per caso alle Frattocchie di Claudio Cecchetto? È un successo vero, che ci ripaga di tante amarezze.
La descriveremmo così, se fossimo l’Agenzia Stefani che piace ai Fratelli d’Italia. Invece quella che si chiude indegnamente tra le musiche e i fiori del Festival è purtroppo una settimana nera per l’Italia e per l’Unione. Saremo pure “un po’ provinciali”, come ci rimprovera Giorgia Meloni, a rammaricarci per l’esclusione del nostro Paese dal vertice triangolare di Parigi, e poi anche per la cancellazione dell’incontro bilaterale con Zelensky a Bruxelles.
E saremo pure un po’ “apoti”, come diceva Giuseppe Prezzolini, a non berci il bibitone propagandistico e autocelebrativo sul “significativo cambio di passo” impresso dall’Italia al lento convoglio europeo sul controllo dei flussi migratori. Ma stiamo ai fatti. La cena di Macron con Scholz e Zelensky è stata sicuramente un’inopportuna conventio ad excludendum, nata dalla voglia di grandeur di una nazione che non ha più molte ragioni per nutrirla. Ma riflette anche due evidenze “storiche” (in questo caso sì, il termine ci sta tutto).
La prima è un oggettivo “stato dell’Unione”, che è franco-tedesca o non è: va così dal 1957, non dall’altroieri. La seconda è un soggettivo “stato dell’Italia”, che è da sempre subalterna da diversi punti di vista: economico, strategico, militare. Non aver capito questo, e aver protestato a microfoni aperti durante un Consiglio europeo, dicendo basta alla “diplomazia della pacca sulla spalla”, ha trasformato un piccolo sgarbo personale in un grande strappo istituzionale.
E ha fatto emergere l’ennesimo testacoda tricolore: se da un lato accusi la Francia di aver escluso l’Italia, ma dall’altro dichiari che “non esiste un’Europa di seria A e di serie B”, stai di fatto autocertificando la tua avvenuta retrocessione.
Se siamo in serie B, ormai da una trentina d’anni, non dovremmo piangerci addosso ma allenarci per risalire in A. Non dovremmo raccontare balle a noi stessi, spacciando per un’epifanica “prima volta” di cui rivendicare il merito quello che i 27 ripetono inutilmente dal Trattato di Dublino in poi, cioè che “il problema migratorio si risolve solo a livello europeo”, o che “vanno difesi i confini esteri” o “riconosciuti quelli marittimi”.
E dovremmo ammettere che, se oggi a Bruxelles contiamo ancora meno di prima e siamo guardati con qualche diffidenza in più, un peso ce l’ha lo stigma eurofobico che la nostra destra sovranista si è conquistata sul campo in questi anni, denunciando “l’Europa criminogena” e invocando “l’uscita controllata dall’euro”.
Serve a poco rimestare tra le bugie di Meloni sul Titanic (che ci ammonisce un po’ a sproposito sull’eventuale naufragio europeo nel quale annegherebbero insieme i passeggeri sia di prima sia di terza classe), e le nostalgie di Draghi (che a bordo di quel treno per Kiev insieme a Scholz e Macron nel giugno 2022 ci diede l’illusione di una ritrovata “centralità italiana”). Sono entrambe posticce. Su quel transatlantico si salvarono solo pochi ricchi signori di prima classe, mentre non ci fu scampo per i poveri cristi di terza.
E su quel treno non salì l’Italia, debole dei suoi mali atavici, ma solo Supermario, forte della sua credibilità individuale. Dunque, cara presidente del Consiglio, usciamo dai film dell’Istituto Luce, lasciamo perdere gli editti bulgari riciclati e le vaghe pretese da Minculpop sulla Rai, già trasformata sua sponte nella casamatta del nuovo potere, e diamoci da fare per recuperare posizioni e ricucire lacerazioni. Prima del voto ci aveva annunciato che era “finita la pacchia”, ma non abbiamo ancora capito per chi. Adesso scopriamo che è anche “finita la pacca”, ma non abbiamo compreso cosa la sostituirà.
Con Zelensky, al di là dell’indegno pastrocchio sanremese, scontiamo anche questo: confermiamo da mesi la totale vicinanza al glorioso popolo ucraino, ma da altrettanti mesi assistiamo alle nevralgie russofile di Salvini e Berlusconi, e soprattutto non riusciamo a far votare in Parlamento il sesto decreto sulla fornitura di armi.
Nel frattempo, per liberarci dalla dipendenza energetica da Putin, firmiamo contratti con i suoi amici africani (vedi l’ultimo, in Algeria). Non è il modo migliore di farci apprezzare dagli alleati. Se a tutto questo aggiungiamo il no secco alle richieste italiane sul nuovo Fondo sovrano per gli aiuti di Stato e le ventilate “vendette” da consumare nei sottoscala del Palazzo Justus Lipsius insieme ai polacchi, ai cechi o agli ungheresi, allora il “sommario di decomposizione” dei patrioti è completo.
Ma il bilancio della settimana, come abbiamo detto, è in perdita secca anche per l’Europa. A proposito della guerra, lo hanno sottolineato qui Lucio Caracciolo e Lucia Annunziata. La ragione un po’ sprezzante con la quale Macron ha motivato l’esclusione di Meloni dalla cena all’Eliseo, invece che assolvere, condanna l’asse franco-tedesco. Dire “come sapete, Germania e Francia hanno un ruolo speciale nella questione ucraina da otto anni” non è un vanto.
Semmai è un’onta, se si misurano i risultati nulli o disastrosi raggiunti dal “formato Normandia” che ha negoziato gli accordi di Minsk II nel 2014. E al di là del rito collettivo, degli inni e delle bandiere, cos’ha prodotto di concreto il “valzer bruxellese”? Cosa è uscito dal “carosello di sorrisi, congratulazioni e promesse” tra i leader? Cos’ha portato a casa Zelensky, a parte le photo-opportunity e il carosello di sorrisi, congratulazioni e promesse? Chiedeva altre armi, i caccia M-16 dopo i Leopard II e gli Abrams. Non li avrà. Non per ora, almeno, anche se 130 mila soldati russi sono in marcia verso il Lugansk.
La guerra non sta andando bene. Soprattutto, anche la notizia della morte imminente dell’Orso post-sovietico si rivela purtroppo largamente esagerata. Gli embarghi energetici e le sanzioni commerciali, i blocchi finanziari e i sequestri di beni degli oligarchi hanno certamente colpito la Russia, ma non l’hanno affatto abbattuta. Nicholas Mulder, sul New York Times, ricorda che a marzo del 2022 l’Istituto Internazionale di Finanza aveva previsto uno schianto del 15% del Pil russo entro la fine dell’anno.
Non è andata così: la caduta si è fermata al 3%. E adesso, per il 2023, il Fondo Monetario prevede addirittura una ripresa dello 0,3%, poco meno della modesta crescita dello 0,7% nella Ue e molto più dell’ulteriore crollo dello 0,8% nel Regno Unito. Nonostante il più potente apparato sanzionatorio mai varato su scala planetaria, la Russia dimostra una sbalorditiva capacità di resilienza. In termini di impatto sul Prodotto lordo le tre crisi del 1998, del 2008 e del 2020 hanno pesato infinitamente di più di quella in atto. Le ragioni sono diverse.
A compensare il crollo degli scambi commerciali con EuroAmerica ha provveduto il boom della globalizzazione parallela con Asia, Medioriente, America Latina e Africa. I trader svizzeri che facevano viaggiare dal Mar Nero i cargo carichi di commodities (petrolio, gas, acciaio, fertilizzanti e grano) sono sostituiti da quelli degli Emirati. Le raffinerie indiane e le società di stoccaggio di Singapore fanno affari d’oro comprando greggio russo a prezzi scontati e rivendendolo con ricchi margini sui mercati mondiali.
La Turchia è diventata la principale porta d’accesso per chi continua a vendere prodotti alla Russia, come dimostra il lunghissimo serpente di Tir che ogni giorno si insinua tra le montagne del Caucaso. Attraverso una fitta rete di intermediari, i microchip occidentali continuano ad armare elicotteri e missili dell’ex Armata Rossa. Piccoli paesi come l’Armenia e il Kyrgyzistan rivendono a Mosca beni di consumo di ogni tipo, dagli smartphone alle lavatrici.
Se comparato con i livelli pre-guerra, questo nuovo network di import/export è meno efficiente e più costoso. Ma non sta impedendo al Cremlino di risalire dagli abissi del crac paventato un anno fa. Tanto che Mulder, ragionando sugli effetti della sporca guerra in corso, si pone una domanda retorica: chi sta pagando il prezzo più alto, tra un’economia che vale 200 miliardi di dollari e che ha perso un terzo del suo Pil, come l’Ucraina, e una che ne vale 1.800 miliardi e che si contrae del 3%, come la Russia?
“Gloria all’Ucraina”, dunque. Negli Anni Cinquanta Carl Schmitt descriveva il mondo come conflitto latente tra due blocchi: da una parte “l’universalismo delle potenze dell’Occidente liberaldemocratico e assimilatore di popoli”, dall’altra “l’universalismo dell’Oriente bolscevico e fomentatore delle rivoluzioni planetarie”. Oggi, rispetto ad allora, c’è di nuovo Putin e il suo delirio tardo-imperiale. Ma resta la stessa Europa sospesa, indecisa e divisa. Con in tasca le solite “risposte differenti, di fronte a una differente chiamata della Storia”.