Lucio Presta: «Sanremo oggi è una serie Tv. Per crescere dovrà uscire dall’Ariston»

Francesco Prisco ilsole24ore 5 febbraio 2023
Lucio Presta: «Sanremo oggi è una serie Tv. Per crescere dovrà uscire dall’Ariston»
Il manager di Amadeus, Benigni e Bonolis alla vigilia del suo nono Festival: «Arrivo all’edizione 2024, poi saluto. Il futuro della kermesse? Al Palafestival»

Sanremo è lo specchio del Paese, lo dicono tutti. Ma sbagliano: Sanremo è il Paese, un palcoscenico con cui l’Italia s’identifica, la gara di canzoni per la quale ci si scalda, ci si divide in fazioni, si polemizza: tutte antiche specialità della casa, qui da noi. Per una settimana – quest’anno dal 7 all’11 febbraio – per noi italiani pare non ci sia niente di più importante al mondo. Perché Sanremo è Sanremo, secondo il celebre motto baudiano: è il vecchio contro il nuovo ma, alla fine, diventa il vecchio che convive col nuovo, come ai tempi della contrapposizione tra Claudio Villa e gli urlatori, «perché se vuoi fare una televisione generalista che funzioni, devi necessariamente tenere insieme le generazioni, attraversarle. Rassicurare chi ha qualche anno in più con i propri beniamini, intrigare i giovani con quelli che già seguono grazie ad altri circuiti di fruizione come lo streaming».

Il manager di tv più importante della tv

A parlare è Lucio Presta, uno che se ne intende abbastanza di televisione in generale e del Festival della canzone italiana in particolare. Con un roster che spazia da Paolo Bonolis a Roberto Benigni passando per Amadeus, conduttore alla quarta edizione da direttore artistico di Sanremo, è probabilmente il manager di Tv più importante d’Italia. Quella che sta per cominciare è la sua nona edizione di Sanremo in questo ruolo. Al netto dei cantanti in gara, solo Pippo Baudo e Mike Bongiorno hanno fatto più Festival di Presta che, comunque, mette le cose in chiaro: «Arrivo al decimo, quello del 2024 che faremo sempre con Amadeus, poi saluto Sanremo».

Sanremo come viaggio sentimentale

Calabrese di Cosenza, 63 anni da compiere il giorno di San Valentino, ha un passato da ballerino nei varietà televisivi degli anni 80 prima di passare dietro le quinte, dove sia gli amici che i nemici gli riconoscono una certa ritrosia a parlare di se stesso e un talento di negoziatore fuori dal comune. Con il Festival il rapporto è antico e, per forza di cose, sentimentale: «Da spettatore, mi ricorda l’infanzia con i nonni: Sanremo era immancabile. Mi torna in mente l’amore di mia nonna per Giovanni Calone, meglio noto come Massimo Ranieri. Che grande emozione è stata per me, qualche decennio più tardi, organizzare il tour del ritorno alla canzone di Massimo. Poi mi torna in mente la prima volta che sono andato a Sanremo da ballerino, con Patty Brard nel 1985».
Dal Sanremo di Bonolis a quello di «Ama»

Esattamente 20 anni più tardi, arriva il suo primo Sanremo da manager: la prima edizione affidata a Bonolis. «I due Festival di Paolo», racconta davanti a una tazza di tè, nell’hotel in cui fa base nelle sue giornate milanesi, «sono stati rivoluzionari sul piano dello spettacolo. Pensiamo solo alle aperture spettacolari affidate a Daniel Ezralow o al duetto tra Arisa e Lelio Luttazzi. Bonolis, tra i pochissimi qui da noi ad avere sia il Dna della tv pubblica che di quella privata, ha riportato il grande pubblico al Festival, dopo una parentesi di crisi del prodotto».

Il Sanremo di Antonella Clerici «fu quello della Favola. Nessuno credeva in quel Festival e sorprendemmo tutti. Venivamo dal grande successo del secondo Sanremo di Bonolis. Con Gianmarco Mazzi inizialmente provammo a individuare un partner maschile da affiancare ad Antonella, ma tutti rifiutavano, per il timore di confrontarsi con i numeri che aveva fatto Paolo l’anno prima. Ci accorgemmo che stavamo ragionando del superfluo: la Clerici reggeva benissimo l’Ariston da sola. La forza di Antonella sta nella sua autenticità, nel fatto che è esattamente come la vedi nella vita reale». Poi vennero le due edizioni di Gianni Morandi, «storiche tutte e due per numeri artistici straordinari: penso per esempio a Benigni che fa l’esegesi dell’Inno di Mameli nel 2011».

Un Festiva trans-generazionale

E così arriviamo alle tre edizioni destinate a diventare cinque di Amadeus, «un Festival rivoluzionario dal punto di vista musicale, del cast e dei partner scelti». Amadeus, secondo Presta, «da grande appassionato di musica, è stato bravo a mettere insieme ciò che piace ai figli e ciò che piace ai genitori. Quest’anno avremo insieme Al Bano, Morandi, Ranieri e la reunion dei Pooh che sono la storia della musica leggera in questo Paese, ma anche artisti che magari uno spettatore con qualche anno in più potrebbe non conoscere: chiedesse ai propri figli e saprà chi sono. Per dire: prima di Sanremo 2020 i Pinguini Tattici Nucleari non erano noti al pubblico generalista. Oggi sono uno dei fenomeni musicali del momento. Ama è bravo, ha orecchio per queste cose».

Il riavvicinamento Sanremo-vendite discografiche

E le classifiche di vendita Fimi GfK, edizione dopo edizione, hanno finito per avvicinarsi. A fine 2022 il singolo più venduto risulta per esempio Brividi di Blanco e Mahmood, brano vincitore del 72esimo Sanremo. C’era un unico precedente di brano vincitore del Festival che chiudeva l’anno in testa alle classifiche: Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno. «Questo dato dice tutto», sottolinea Presta. «Le cose si fanno bene o si fanno male. Se fai le cose bene, il pubblico apprezza. Non servono le sfilate di musica un cantante via l’altro, ma bisogna costruire un percorso, un fil rouge che tenga la storia musicale in piedi». Il momento più difficile delle sue avventure sanremesi? «Il Festival 2021, in pieno Covid, con platea e galleria vuote, Amadeus e Fiorello artefici di un miracolo».

Il Festival inteso come serie tv

Il successo del Festival di Amadeus sta comunque anche nella capacità di interpretare l’epoca delle serie e della tv non lineare. «Anche Sanremo», spiega Presta, «in un certo senso è diventato una serie Tv. Siamo nell’epoca della serialità e il Festival non fa eccezione. Ci siamo inventati un nuovo modo di raccontare, all’interno del Festival, e un nuovo modo di raccontare il Festival. Una volta funzionava che un direttore artistico, alla vigilia della kermesse, concedesse un’intervista esclusiva a questo o quel giornale su che cosa sarebbe successo all’Ariston, magari facendo infuriare tutti gli altri. La comunicazione sul Festival, con questo schema, si concentrava in poche settimane dell’anno. Con le ultime edizioni di Amadeus ci siamo detti: abbiamo il più grande strumento di comunicazione generalista del Paese che si chiama Tg1, costruiamo attraverso di esso una narrazione che abbracci più mesi e faccia discutere il pubblico per buona parte dell’anno».

L’importanza di avere un Palafestival

Come se lo immagina Presta il futuro del Festival? «Inevitabilmente – risponde il manager – un giorno si dovrà abbandonare l’Ariston e costruire un Palafestival, anzi esorto il proprietario Walter Vacchino e l’amministrazione comunale e regionale a pensare presto a questo progetto. Stiamo parlando del più grande evento televisivo italiano, qualcosa che non ha eguali in Europa. Incredibile che si faccia all’interno di un cinema. Incredibile o forse molto italiano». Sulla Tv che si fa in Italia, il giudizio di Presta è severo: «Salvo rarissimi casi – precisa – la Tv adesso è prêt-à-porter, prima si va in onda e poi si prova, mancano grandi autori, scarseggiano le risorse economiche e si fanno programmi come i reality che servono da foraggio ai day time, soprattutto sulla tv commerciale».

Quando i contenuti sono più forti della politica

Spesso si dice che la Rai è politica. Come si fa a rimanere punto di riferimento per la Tv pubblica al di là delle stagioni? «Chi mi conosce», risponde Presta, «sa bene che la mia unica forza sono gli artisti e le idee: quelle servono alla Tv più della politica. Non ho mai avuto vantaggi dalla politica, mentre mi sono fatto molti nemici per non aver mai accettato imposizioni o scelte. Mi addolora solo che spesso a pagare il mio integralismo sia mia moglie (la conduttrice Paola Perego, ndr), ma ha spalle larghe ed è una grande professionista che ha raccolto meno di quanto meriti».
La famiglia degli artisti

Presta ha una vicenda biografica molto particolare che, qualche anno fa, ha raccontato nell’autobiografia Nato con la camicia (Mondadori). Per dirne una: sua madre morì nel darlo alla luce. «Non mi stancherò mai di dire – sottolinea – che quell’evento è stata la mia forza. Sono credente, salesiano di formazione: credo nei segni. Nel mio percorso di vita, posso dire di averne trovati molti. Così come posso dire che la famiglia, la stessa che a me da piccolo è stata in parte negata, rappresenta un punto di riferimento fondamentale. Sento i miei artisti come parte della mia famiglia. Per lavorare con me devono avere la mia stima artistica e umana, io per loro ci devo essere sempre e non solo nel lavoro, devono poter contare su me e io sulla loro fiducia. Per il resto, ho la fortuna, arrivato a questo punto, di avere accanto a me i miei figli Niccolò e Beatrice che hanno voluto intraprendere la mia stessa strada, nonostante io non abbia fatto alcuna pressione in questo senso. Anzi».

Sul confronto con i colleghi, «non ruberei nulla a nessuno perché ognuno ha il suo stile e negli abiti di un altro non sarei a mio agio. Invidio solo la bravura di mio figlio a 30 anni: forse io alla sua età non avevo la sua visione». Come vorrebbe essere ricordato Lucio Presta? «Qualche anno fa – sorride – avrei risposto facendo gli scongiuri. Oggi direi che mi piacerebbe essere ricordato come una persona di carattere, magari con qualche spigolo, ma fondamentalmente una persona perbene». Il telefono squilla e lo richiama al lavoro: c’è il Festival da portare in scena. Ma un’ultima cosa Presta ci tiene ad aggiungerla: «Tutti gli artisti che rappresento sono persone perbene».

 

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