Regionali, ora la fase due del “Melonismo”

Stefano Folli La Repubblica 14 febbraio 2023
Regionali, ora la fase due del “Melonismo”
Forte in Italia, contestata in Europa, la premier deve decidere quale strada imboccare

 

La domanda ora è: che uso farà Giorgia Meloni del successo elettorale in Lombardia e Lazio? Il dato di ieri, 13 febbraio, conferma e rafforza, a distanza di quasi cinque mesi, il risultato del 25 settembre. Sia pure nell’indifferenza generale e sullo sfondo di una fuga dalle urne alquanto sconcertante, il destra-centro si definisce come la proiezione personale di una leadership senza rivali.

L’opposizione, è evidente, continua a vivere il suo psicodramma in apparenza privo di un epilogo a breve. Ma soprattutto il resto della coalizione di governo sembra frastornato, almeno per quanto riguarda la capacità di incidere e di condizionare la signora di Palazzo Chigi.

C’è stato, è vero, il progetto Calderoli: la promessa dell’autonomia regionale. Mossa astuta, sebbene dai contenuti ancora confusi. Ma al di là di questo aspetto, Lega e Forza Italia sembrano consegnate a un ruolo subalterno, appena addolcito da qualche poltrona.

Di fatto in Lombardia il mondo si è capovolto: Fratelli d’Italia è di gran lunga il primo partito, Salvini si consola grazie al presidente rieletto, Fontana, e a una percentuale della lista meno disastrosa del temuto, ma il suo potere si è affievolito fino a rendere sbiadita l’immagine del movimento nordista caro a Bossi.

Quanto a Forza Italia, i suoi voti sono quasi residuali in quello che un tempo era il regno del berlusconismo. E nel Lazio l’esito del voto è altrettanto netto.

In breve, la presidente del Consiglio avrebbe tutto per essere soddisfatta. Al di là degli incidenti di percorso – le accise sulla benzina, i pasticci di Donzelli e Delmastro sul caso Cospito, le questioni dei migranti – , il rapporto con l’opinione pubblica non si è interrotto, anzi.

Di qui in avanti, e fino alla primavera del 2024 quando verrà rinnovato il Parlamento europeo, non sono previsti altri passaggi elettorali significativi. Invece ci sarà da governare il Paese all’interno di una cornice politica non sfavorevole.

Palazzo Chigi si rallegrava di un risultato “che rafforza il governo”. Se è così, vuol dire che in futuro errori e carenza di visione saranno imperdonabili. Poi, certo, sulla carta l’esecutivo è più forte, tuttavia per ora solo sulla carta: la frustrazione degli sconfitti può generare un processo di logoramento di cui si conosce l’inizio ma non la fine.

Non è un caso che Berlusconi abbia usato la politica estera per mettere un cuneo nelle ruote del carro meloniano. Un gioco spregiudicato oltre misura, tanto più che si parla delle nostre alleanze internazionali e di una guerra ai margini dell’Europa. Il colpo alla credibilità dell’Italia, inutile negarlo, è andato a segno. E come sappiamo non si tratta soltanto di questo.

La premier Meloni, che non ha mai amato l’architettura dell’Unione fondata, aldilà delle ricorrenti crisi, sull’antico asse franco-tedesco, oggi deve decidere quale strada imboccare.

Può usare il suo consolidato peso elettorale per gettare un ponte verso Macron, con l’obiettivo di individuare un modo di convivere sulla base della reciproca convenienza. Oppure può tenere alto il muro della diffidenza, dedicandosi a tessere il rapporto con i partner del gruppo Conservatore, di cui lei è la leader. I polacchi, in primo luogo.

La strategia è stata descritta per la prima volta su queste colonne qualche settimana fa. Provare a sostituire in Europa i Socialisti con i Conservatori in un’alleanza con i Popolari, così da gestire la prossima commissione. È un disegno ambizioso e di non facile realizzazione. Il problema è che si voterà tra un anno e tre mesi.

Un tempo molto lungo e il sentiero da percorrere è lastricato di precise intenzioni, ma anche disseminato da crescenti tensioni. Forte in Italia sul piano elettorale, contestata in Europa perché portatrice di un disegno destabilizzante. Da oggi il “Melonismo” volta pagina e comincia un nuovo capitolo.

 

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