La sorprendente modernità del cinema di Massimo Troisi

Roberto Nepoti La Repubblica 19 febbraio 2023
La sorprendente modernità del cinema di Massimo Troisi
Smarriti, incerti, alle prese con la nascita di nuove domande sociali. I protagonisti del cinema dell’attore napoletano fanno vedere un’intera epoca

Da un sondaggio dei primi anni 2000 Massimo Troisi risultò, dopo Sordi e Totò, il terzo dei comici italiani più noti e amati dal pubblico. Oltreché, cosa notevole, il più amato dai giovani, che si sentivano rappresentati da lui fino a crearne dei meme ante-litteram, a riprenderne le battute, le espressioni, la mimica. Un successo così ecumenico e immediato pone delle domande. Perché un comico in fondo sommesso com’era Troisi, a paragone con colleghi esuberanti quali un Verdone, un Benigni, un Villaggio, un attore che parlava un dialetto napoletano smozzicato e a volte incomprensibile, che interpretava non personaggi caratterizzati ed esilaranti, ma soprattutto se stesso, raccoglieva consensi tanto unanimi?

La risposta più probabile è che Troisi, tra tutti i comici italiani dell’epoca, fosse quello che interpretava meglio una generazione – la propria – di giovani spaesati di fronte alle incognite del dopoguerra, smarriti e timorosi di assumere responsabilità, incerti sul ruolo da tenere di fronte alle istanze del nascente femminismo.

Più che perdersi in approssimazioni sociologiche, converrà cercarne le prove nel cinema stesso di Massimo (un po’ come ha fatto Mario Martone nel documentario biografico Laggiù qualcuno mi ama, che esce sugli schermi in questi giorni, nel settantesimo anniversario della nascita di Troisi). Perché, la si guardi come si vuole, il suo è l’unico caso di cinema comico “moderno” generato in Italia: non solo dal punto di vista della regia e della recitazione, ma anche da quello concettuale e narrativo.

 

La cosa appare del tutto evidente nell’esordio cinematografico di Massimo, cui gli aveva aperto la porta il successo del gruppo comico “La smorfia”. Ricomincio da tre riunisce tutti i caratteri salienti del cinema moderno, come era stato codificato dalla Nouvelle Vague francese (e prima ancora dal neorealismo italiano), poi teorizzato da Gilles Deleuze. A differenza dei confratelli comici, il protagonista Gaetano non segue una linea d’azione coerente, nel tentativo (al caso fallimentare) di conquistare un obiettivo, amore, danaro o successo che sia.

Il ragazzo napoletano il trasferta al nord (ma tutti si ostinano a chiamarlo “immigrato”) è un antieroe in piena regola, che si limita ad andarsene a zonzo per una realtà frammentaria e dispersa, subendo gli avvenimenti anziché provocarli (contrariamente a un Chaplin o a un Jerry Lewis).

Marta, la giovane di cui è innamorato, gli impone comportamenti “femministi” nei quali non può riconoscersi e che tuttavia accetta, con un autentico ribaltamento rispetto al cinema classico. Non diversamente per la parola: che dà, sì, origine a vere e proprie gag (come quando – in Scusate il ritardo – spiega confusamente all’amico Tonino che la ragazza lo ha lasciato perché “è bbrutto”), ma che non vale per il suo senso, bensì per il flusso sincronizzato con la gestualità dove è il suono a prevalere sui significati.

Quanto alla performance dell’attore, Massimo rinuncia da subito alla gestualità enfatica e sottolineata che caratterizza comici suoi contemporanei quali Benigni o Verdone. Pur nella coloritura partenopea, i suoi gesti sono misurati e naturali: come lo saranno nei personaggi interpretati per Ettore Scola (il proiezionista di Splendor, il figlio Michele di Che ora è); ma ancora di più nel Viaggio di Capitan Fracassa.

Nell’adattamento del romanzo di Théophile Gautier, Troisi interpreta proprio quel Pulcinella di cui tante volte e da tante parti era stato designato come l’erede: e tuttavia è un Pulcinella senza maschera, saggio, che accenna solo sulla scena del carro di Tespi la gestualità veemente che ci aspetteremmo da lui.

Però c’è un aspetto forse più importante a testimoniarne la modernità: l’adozione della macchina da presa fissa, che nel primo film fu scambiata da molti per imperizia di regista e che, invece, diventò poi una cifra del suo stile, in coerenza con un principio basilare teorizzato e praticato dal “cinema moderno” e ispirato allo straniamento brechtiano.

In base al quale l’autore non muove più la cinepresa secondo uno schema narrativo finalistico, guidando lo sguardo dello spettatore per mostrargli ciò che vuole fargli vedere, e non altro. Mette, invece, al suo servizio il contenuto dell’inquadratura, lasciando che chi la osserva segua liberamente i propri percorsi di senso.

 

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