Folli incorona Meloni riferimento atlantico, ed allude a nuovi putiniani

Stefano Folli La Repubblica 22 febbraio 2023
La scelta di Giorgia e le sue conseguenze
Ci sono pochi dubbi che la data del 21 febbraio resterà nella storia personale e politica di Giorgia Meloni come un passaggio cruciale.

S’intende, ognuno poi valuterà come crede il viaggio della premier in Ucraina, ne darà un giudizio politico, lo peserà anche alla luce delle parole sferzanti di Zelensky su Berlusconi e soprattutto dei prossimi eventi, primo fra tutti la visita a Washington promessa ma non ancora definita. Avremo dunque modo di valutare le ricadute dell’immagine dell’Italia sul piano internazionale, ma altresì i riflessi interni: i rapporti nel centro-destra e quelli con l’opposizione.

Tutto questo per dire che ieri a Kiev, a Bucha, a Irpin qualcosa è successo: qualcosa che cambia il profilo della presidente del Consiglio e la pone su un altro piano rispetto al piccolo cabotaggio delle giornate romane, tra Superbonus da correggere e pasticci parlamentari da riaggiustare. La commozione, i toni stile Thatcher («saremo dalla vostra parte fino alla fine, combatteremo per la vostra libertà») delineano forse una nuova Meloni.

Una donna che sceglie l’Occidente in modo definitivo, sia pure nell’accezione di un patto privilegiato con gli Stati Uniti di cui fa parte la Polonia («voi siete l’avamposto, la frontiera morale del mondo occidentale») e nel quale restano sullo sfondo i tradizionali equilibri franco-tedeschi che reggono l’Unione europea, qualificata come «gigante burocratico ma non politico».

Non è stata quindi solo una missione di solidarietà con l’Ucraina invasa, ma la conferma di un progetto ambizioso proiettato verso le elezioni europee del ’24, nella speranza di un’alleanza tra Popolari e Conservatori. Il che coinvolge polacchi, spagnoli, ovviamente italiani, ma taglia fuori la Francia di Macron e i socialdemocratici tedeschi. Se si ragiona in un orizzonte domestico, la premier si espone a qualche rischio.

Da un lato, una figura come Berlusconi è ormai fuori dal contesto. Lo si è visto nei crudi giudizi espressi su di lui dal presidente ucraino nel corso della conferenza stampa congiunta, senza che l’ospite italiana difendesse l’anziano fondatore di Forza Italia (e non stupisce, proprio perché la giornata di ieri ha scandito un cambio di scenario).

Dall’altro, c’è una parte della destra e anche della sinistra che respinge l’allineamento agli Stati Uniti e continua a guardare a Putin, l’uomo al quale la premier, in sintonia con Biden, riserva più volte l’epiteto di «aggressore» del popolo ucraino.

Salvini, lo stesso Berlusconi, Conte, una porzione delle correnti di sinistra contigue al Pd si sforzano da tempo di interpretare le inquietudini di quella parte di opinione pubblica favorevole ad abbandonare Kiev al suo destino. È uno schieramento sfilacciato sul piano politico, ma solido sul piano mediatico.

Ieri Giorgia Meloni lo ha sfidato e vedremo ora cosa accadrà, in Italia e nel rapporto tra Roma e le capitali europee che non gradiscono l’attivismo della giovane premier. Del resto in politica estera il centro-destra è da oggi soprattutto riconducibile alla leader di Fratelli d’Italia.

Nessuno de i suoi contestatori ha la forza o la convenienza di mettere in crisi l’esecutivo da posizioni filo-russe. Le frustrazioni non vanno sottovalutate, ma si esprimeranno nel dibattito pubblico più che in Parlamento.

A meno che… C’è un altro aspetto che ha segnato la giornata, in perfetta simmetria con gli avvenimenti di Kiev. A Mosca anche Putin ha fatto riferimento all’Italia. Ha ricordato il debito di riconoscenza che, a suo dire, noi avremmo contratto con i russi venuti nel nostro Paese nell’anno del Covid, il 2020.

Strano e inusuale accenno. Con un po’ di malizia si potrebbe persino pensare che Putin volesse alludere a qualche intreccio allacciato in occasione di quella missione sanitaria. Un intreccio che ha creato un rapporto speciale con qualche personalità.

 

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