Il gioco di Mourinho e la capacità di far giocare male l’avversario

Daniele Lo Monaco il Romanista 21 febbraio 2023
La Roma si adatta all’avversario ma poi si impone e colpisce
L’analisi di Roma-Verona. Il segreto di Mourinho: sembra subire il gioco degli avversari, ma poi sono loro a restarne invischiati nella tela dello Special One fino a non saper neanche tirare

Forse c’è qualcuno che non si rende conto della dimensione di quello che stiamo facendo». Parole, senza musica, di José Mourinho spese ai microfoni di Dazn a fine partita e poi ribadite, qualora a qualcuno fossero sfuggite, in sala stampa nella rituale conferenza. Qual è, dunque, la dimensione esatta di quello che i giocatori della Roma con il loro allenatore stanno facendo? Gli accenti su una sfumatura o sull’altra nel perenne dibattito sull’efficacia e sulla bellezza del gioco della Roma vengono posti solo in base all’ultimo risultato.

Per cui i fanatici della costruzione dal basso tendono a radicalizzare il loro pensiero più facilmente quando la Cremonese ci sbatte fuori dalla Coppa Italia mentre i mourinhani più estremisti sfoderano le loro armi dopo ogni vittoria, anche di misura come quella con il Verona, sbandierando i punti in classifica, i dati difensivi e soprattutto ora quel sorprendente terzo posto che a questo punto della stagione non era contemplato nei pronostici neanche dei più ottimisti.

Questa è dunque la dimensione: terzi con una squadra da quinti, sesti o settimi, sembra voler dire Mou. Chiaro pure che attirando l’attenzione sull’efficacia di rendimento della sua squadra Mourinho stia giocando una partita che in realtà tende a portare risultati in due diverse direzioni: da una parte interpreta mirabilmente il ruolo nel quale da sempre si sente maggiormente a proprio agio, e cioè quello del padre spirituale di una setta fatta squadra che trova sempre nuova linfa in questi atteggiamenti, perpetuando così all’infinito il meccanismo di autoesaltazione fino a diventare un corpo unico che espelle gli organismi estranei (leggi Zaniolo) e si richiude subito dopo in se stesso mostrando poi la sua espressione più compatta in ogni partita.

Ma dall’altra parte non sfuggirà ai più maliziosi come il tecnico portoghese stia a poco a poco creando i presupposti per poter arrivare un giorno al confronto con i Friedkin con una forza contrattuale tale da poter dire: «O trovate il modo di farmi una squadra in grado di puntare al massimo dopo che ho portato questo gruppo ancora immaturo a questi livelli oppure sarò costretto ad accettare una delle tante proposte che continuo a ricevere (ma non è più vietato contattare i tesserati sotto contratto?)».

Camaleonte Roma
Tornando alla dimensione della Roma è ormai chiaro a tutti che la squadra di Mourinho abbia raggiunto un livello tale di maturità anche tattica da giustificare un paradosso ormai evidente: pur adattandosi ogni volta all’avversario che ha di fronte, la Roma fa giocare ormai a tutti la stessa partita. Tatticamente, infatti, la Roma è sempre la stessa, quasi immutabile nel suo sistema di gioco con tre difensori, due esterni, due mediani e tre giocatori offensivi. Ma sotto il profilo della strategia di gara è una squadra in grado di sorprenderti sempre, capace com’è di andare a pressare alto a ritmi vertiginosi in casa del Napoli e di aspettare la Cremonese o il Salisburgo confidando soprattutto nella solidità difensiva e nell’imprevedibilità dei più talentuosi tra gli uomini offensivi.

Contro il Verona, ad esempio, la Roma ha fatto il Verona, accettando il confronto a uomo non solo quando doveva subirlo, in possesso palla, ma anche per prosciugare la fonte delle iniziative avversarie. Per cui non c’è mai stato un movimento di reparto difensivo a formare una linea geometricamente riconoscibile, ma solo uno spezzettamento a determinare 10 duelli difensivi dai quali trarre la forza tecnica e mentale per vincere la partita. E così è successo. La Roma è una specie di “camaleone”: sembra subire gli avversari ma poi se li mangia e loro non riescono neanche più a tirare in porta.

Gli avversari spenti
A leggere i dati della gara di domenica sera è un deja vu: quelli col Salisburgo, la Cremonese o l’Empoli sono stati decisamente simili. Segno che a decidere ormai il tipo di partita che si giocherà non è l’avversario, come succede alle squadre prive di una precisa identità, ma sempre e solo la Roma. Ecco perché riteniamo inconsistente e poco appassionante il dibattito sull’effettiva brillantezza della costruzione del gioco della Roma dal basso e sui successivi sviluppi tattici. Roma è altro e questo altro lo interpreta alla perfezione, e questa è la sua dimensione. Sta (anche) qui la grandezza di Mourinho: uno capace di convincerti prima che la sua squadra è formata da un campione, tre buoni giocatori e un gruppo di ragazzi volenterosi e di arrabbiarsi poi se qualcuno non dà fiducia a questo gruppo perché lo ritiene costituito da un solo campione, da tre buoni giocatori e da un gruppo di ragazzi volenterosi.

L’altra Roma
Ma la partita di domenica sicuramente ha avuto un altro merito oltre a quelli già sottolineati e cioè che la rosa è tale da garantire adeguati ricambi anche quando mancano insieme due o tre cosiddetti big, se gli altri stanno tutti bene. Solbakken è la rappresentazione plastica di questo discorso: chi ha (più o meno consapevolmente) valutato male le battute con cui Mourinho nelle precedenti settimane aveva magari frettolosamente descritto pregi e difetti del norvegese, si sarà stupito nel vederlo già così tonico ed inserito. Ma la realtà dice che è un giocatore di tutto rispetto, strappato alla concorrenza del Napoli nello scorso mercato (e se non si vuole dar credito a Pinto, si potrebbe considerare il giudizio di Giuntoli, quello che ha preso Kim e Kvaratskhelia), e che rappresenta un importantissimo upgrade rispetto a ciò che poteva dare a questo gruppo Shomurodov.

L’altra nota lieta della serata è Leonardo Spinazzola, uno che quando sta bene è ancora il miglior esterno sinistro d’Italia. La sua presenza più o meno fissa consentirebbe a Mourinho di recuperare sulla trequarti anche Zalewski e si è visto l’altra sera quale contributo il polacco possa dare anche piazzato al di fuori della fascia in cui era stato relegato nell’ultimo anno. Anche Edoardo Bove comincia ad assomigliare ad una certezza per i ricambi del centrocampo: mentre Wijnaldum sembra aver scaldato ormai il suo motore e Karsdorp è finalmente tornato in campo dopo quasi tre mesi di assenza. Resta da capire se anche Diego Llorente può essere un’alternativa valida migliore di Kumbulla: se così fosse Pinto avrebbe fatto bingo. E la Roma sarebbe in grado di affrontare gli ultimi 100 giorni di stagione con molte certezze in più. Ma la prima, la più importante di tutte, si chiama José Mourinho.

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