Dalla pace al riarmo finisce un’era in Europa

Lucia Annunziata La Stampa 24 febbraio 2023
Dalla pace al riarmo finisce un’era in Europa
L’Ue torna a investire in Difesa, e sulle armi punta alla strategia del vaccino anti Covid

«Il mondo sta sperimentando una Zeitenwende: uno slittamento tettonico epocale. La guerra di aggressione russa all’Ucraina ha posto fine a un’era».

Sono le prime due righe di un intervento del cancelliere tedesco Scholz, pubblicato da Foreign Affairs il 5 dicembre 2022. Parole di un inusuale tono millenaristico che, per diffusione e intensità, hanno definito (condividere o meno) il tono dell’Europa nel primo anniversario della guerra in Ucraina: qualcosa è finito per sempre in questo nostro mondo, e questo qualcosa è il senso della propria sicurezza.

L’ era di cui parla il cancelliere è quella seguita alla caduta del Muro di Berlino, «tre decadi di relativa pace e prosperità», densi di «avanzamenti tecnologici, livelli senza precedenti di connettività e cooperazione», «coraggiosi cittadini che in ogni parte del mondo hanno travolto dittature»; così che «negli anni 90 sembrava che si fosse affermato un più stabile ordine mondiale». Una nuova era che è sembrata convincere tutti della possibilità di nuove formule di crescita e governo, come aveva augurato Willy Brandt alla caduta del Muro: «quello che è parte di un insieme può crescere insieme».

In quegli anni tutto questo «stare insieme» sembrò possibile. I Paesi membri del Patto di Varsavia divennero membri della Nato e dell’Ue. George Bush, presidente conservatore, si augurò «un’Europa unica e libera». Una nuova era in cui, persino, «sembrò possibile che la Russia diventasse partner dell’Occidente e non più l’avversario che è sempre stata», ricorda ancora il cancelliere – e in questa luce per noi italiani si capisce meglio, anche se oggi si rivela una assurdità, quell’ostinato innamoramento di Silvio Berlusconi per Putin. «Ogni Paese europeo tagliò gli eserciti e il finanziamento della Difesa. Perché mantenere una forza di 500mila soldati (tanti ne aveva la Germania, nda) dal momento che eravamo circondati da amici e partner?» spiega Scholz.

Quel tempo è finito. E la fine sta accadendo sotto i nostri occhi: «La Germania e l’Europa possono aiutare a difendere un ordine internazionale fondato sulle regole, senza soccombere alla visione fatalistica che il mondo è destinato ad essere diviso. La storia del mio Paese ci dà una responsabilità speciale nel combattere le forze del fascismo, autoritarismo e imperialismo». In nome di questa battaglia, è stata annunciato il ritorno della Germania a un intenso programma di riarmo.
I resti di un ordigno russo a Bohodarove paiono un totem eretto al dio della Guerra
Dalla pace in tutto il mondo, dunque, alla “difesa” in tutto il mondo. Laddove “difesa” sta per forza militare. Il primo anno di guerra su suolo europeo ha fatto maturare questo salto nelle percezioni dell’Europa. Qualcosa che è quasi un cambio di natura.

La Ue è un’entità politica in permanente work in progress, alla ricerca del consolidamento di un equilibrio fra competenze e identità di 27 nazioni. Un lavoro difficile, che ha per esempio saputo unificare la propria moneta, eppure, mai fino ad ora, unificare la propria difesa. Materia delicata, questione di confini e identità, dell’esistenza di una nazione, i propri uomini, le proprie armi, la propria sicurezza, appunto.

La guerra in Ucraina ha dato una svolta a tutto questo, spingendo ora l’Ue all’azione anche sulle armi. Il nuovo mood europeo ha trovato eco, dopo le parole di Scholz, in quelle di Josep Borrell, alla conferenza di Monaco finita domenica. Borrell, capo della diplomazia europea, voce, in tutte le circostanze, di ogni possibile invito alle negoziazioni, ha suonato stavolta un allarme: «Ci troviamo in urgente modalità di guerra. Questa carenza di munizioni deve essere risolta velocemente; in poche settimane (di tempo, nda)». Sennò «la guerra sarà finita» – e non con una vittoria, intendeva. «Per gli aiuti militari deve esser fatto molto di più e molto più velocemente. Oggi occorrono 10 mesi all’esercito europeo per comprare un proiettile di 155mm, quasi un anno; e quasi 3 anni per comprare un missile aria – aria. È un percorso che non funziona con il tipo di situazione di guerra in cui viviamo».

Un invito chiaro. E una proposta pronta e audace: adottare il modello usato dalla Ue per il vaccino anti Covid. Proposta fatta sua anche dalla presidente Von der Leyen, che sostiene che si dovrebbero fare pagamenti anticipati, come garanzia, alle diverse industrie di armi in Europa, alle stessa maniera adottata con le farmaceutiche per la produzione del vaccino anti Covid. Stiamo andando verso un mini-riarmo, ma che ci apre già a un panorama più grande?

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Fonti militari italiane rispondono a queste domande spiegando in dettaglio la natura delle circostanze in cui ci troviamo. «Durante la Guerra Fredda, il livello di preparazione logistica e disponibilità di scorte era effettivamente molto più grande di quello attuale», dice un alto ufficiale confermando la scansione temporale fornita da Scholz. Interessante è la lista di quali sono gli strumenti militari che scarseggiano oggi: «Munizioni, carri armati, artiglieria, missili x difesa aerea – insomma, tutta la dotazione di armi pesanti della Guerra Fredda».

La dottrina della Difesa, dopo la fine di quel periodo, si è adattata – secondo chi parla- a quelle che abbiamo percepito come nuove sfide: le guerre irregolari, al cui centro c’era il pericolo terrorista. L’Isis in epoca più recente, ma anche le guerre del ciclo degli anni 90: il Kosovo, l’Afghanistan, il Sael e l’Iraq. Per queste guerre servivano «operazioni mirate, trasporti ad alta protezione dei militari, veicoli antimine. E la difesa aerea, che ha avuto un grande ruolo».

In Kosovo sono stati usati soprattutto bombardamenti aerei, e in Iraq e in Afganistan ci sono stati due conflitti in cui l’avversario dell’Occidente era senza forze aeree. L’Iraq le aveva ma non le poteva usare e l’Afghanistan niente del tutto. Ed erano dunque totalmente dominati. Era il periodo in cui si è cominciato ad usare la forza aerea, che aveva raggiunto livelli di precisione “chirurgica”, anche per limitare al massimo le vittime dei soldati occidentali. Nella prima guerra in Iraq inoltre gli americani fecero ampio impiego di missili Cruise in grado di cercare e trovare gli obiettivi. «È vero – continua l’ufficiale – che il cosiddetto no boots on the ground (nessun dispiego di uomini in scontri diretti) sia stata una delle definizioni per la nuova difesa. La pubblica opinione occidentale nel clima positivo dopo la Guerra Fredda era sempre più sensibile alle vittime, sia civili che militari. Per cui l’idea stessa della difesa è cambiata».

Uno dei cambi sono state le armi intelligenti? Su questo il nostro interlocutore introduce un’interessante distinzione. «Oggi quasi tutte le armi hanno capacità “autocercanti”, cioè capacità di individuare l’obiettivo. Tutti i nostri sistemi ce l’hanno. I carri armati, ma anche i proiettili di artiglieria, che hanno una testina in grado di “guidarli”. Ma queste non sono vere armi intelligenti, nel senso che per arrivare all’obiettivo devono essere programmate. Il vero sistema di A.I.(Artificial Intelligence) è quello che sviluppa da solo la sua capacità di decidere cosa fare».

Uno dei proiettili con testina autocercante è proprio il 155mm usato per l’artiglieria. Esattamente quelli che hanno indicato a Monaco Borrell e Von der Leyen nella lista delle priorità nell’aumento della produzione. E qui il cerchio del consenso si riannoda.

Non si tratta di strumenti “intelligenti”, abbiamo detto, ma lo sviluppo militare A.I. è forse la parte più rilevante oggi della corsa allo sviluppo in atto nel mondo degli armamenti. E attraversa tutti i settori, a partire dai più importanti – il cyber e lo spazio i due principali. A proposito di spazio, c’è un numero che val la pena di citare perché dà l’idea di quanto già questo spazio sia popolato, e da chi. In orbita, al momento ci sono 3.772 satelliti: 2.664 (il 70,6%) sono targati Usa, 320 Gran Bretagna (8,5%), 303 Cina (8%), 155 Russia (4,1%), 47 India (1,2%), 44 Giappone (1,2%). L’Ue è fra gli ultimi 3 “Paesi” con 42 satelliti (1,1%). Seguono 28 Canada (0,7%) e 21 Argentina (0,6%).

A parte la nazionalità, chi sono i proprietari di questi 3.772 satelliti? Anche questo è un dato rilevante: 148 ( il 4 %) sono di proprietà di multinazionali. Il 13% sono invece della Difesa: 233 Usa, 129 Cina, 125 Russia. Però alcuni progetti civili, come SpaceX , la società costituita nel 2002 da Elon Musk, ha vinto un contratto per aiutare a trasportare materiale militare nello spazio.

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L’Europa appare invece molto avanti su due dei progetti più costosi e ambiziosi della rivoluzione delle armi: la corsa a creare aerei da combattimento di sesta generazione. E l’Italia vi sta dentro appieno. Il progetto più ambizioso si chiama Tempest – il nome tecnico del programma è Global Combat Air Programme (GCAP) -, ed è stato annunciato da Palazzo Chigi lo scorso dicembre. Vedrà la luce nel 2035, ed è un aereo da combattimento di sesta generazione, che «cambia gli equilibri globali», scrive Michele Nones, per lo IAI, perché «destinato ad avere importanti conseguenze sul programma, sul mercato, sulla competizione europea, sul rapporto Stati Uniti – Giappone, sul quadro indo – pacifico. Siamo, quindi, di fronte a un cambiamento radicale dello scenario di riferimento».

Il progetto concorrente che si chiama FCAS, è anche questo in Europa, e il consorzio è fatto daFrancia, Germania e Spagna. Gli esperti lo considerano però meno innovativo del primo.

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Al di là della competizione, è significativo che l’Europa, che dal 2022 ha firmato un accordo di maggiore integrazione della difesa, (Strategic Compass), sia divisa su questi progetti. Il che ripropone, a dispetto delle molte affermazioni che abbiamo riportato, il solito dubbio sulla sua unità di fondo. E su come reagirà l’opinione pubblica a questa svolta.

A un anno di guerra, ci arrivano in queste ore anche alcuni dati sugli orientamenti dei cittadini del nostro continente. In merito arriva in queste ore un nuovo sondaggio appena pubblicato da “European Council on Foreign Relations” (ECFR), curato da Timothy Garton Ash, Ivan Krastev e Mark Leonard. Ci dice che in Occidente l’opinione pubblica si è inasprita nei suoi sentimenti contro la Russia. Oltre la metà degli intervistati negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in nove Paesi dell’Ue ritiene che la Russia sia un «avversario», mentre rispettivamente il 16%, 12% e 12% la vede come un «rivale».

Fra le eccezioni importanti a questo trend, c’è proprio il nostro Paese. In Italia, infatti, solo il 39% ritiene che la Russia sia un «avversario» e il 15% un «rivale». Il che conferma che almeno su un dato di continuità possiamo contare nel panorama internazionale: l’eccezione italiana.

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