Vanessa Roghi il Manifesto 24 febbraio 2023
Il dovere di insegnare la libertà
Sarà stato il 1992 o il 1993. Frequentavo l’Università La Sapienza di Roma. Un giorno Corrado Vivanti, storico dell’età moderna, entrò in classe e ci disse: «Oggi avrei dovuto parlarvi di tolleranza religiosa nel Cinquecento e invece, visto quello che è accaduto, vi parlerò di intolleranza religiosa nel Novecento».
Era accaduto che durante una celebrazione accademica non ricordo quale personaggio politico avesse omesso di mettere l’aggettivo fascista parlando delle leggi razziali. Un’omissione che sarebbe diventata sempre più frequente negli anni seguenti, ma ancora non lo sapevamo.
Non sapevamo, non potevamo immaginare, che di lì a poco il partito di Gianfranco Fini, erede del partito fascista, sarebbe diventato una forza di governo e che questa “normalizzazione” che Fini aveva deciso di intraprendere, avrebbe causato una qualche revisione del passato, a partire dalla richiesta di una improbabile “memoria condivisa”, che da allora entrò a far parte del lessico giornalistico.
Tanto quanto quelle di “guerra civile” per indicare la Resistenza, con buona pace di Claudio Pavone che aveva scritto migliaia di pagine per farsi capire bene.Quello che però ci era chiaro a tutti e a tutte, quel giorno alla Sapienza, era il fatto che chi aveva il compito di “istruire ed educare la gioventù”, e uso volutamente un lessico novecentesco, non si tirava indietro di fronte all’avanzare di un pericolo, in quel caso il pericolo del revisionismo più becero. Vivanti aveva politicizzato la sua lezione? O aveva fatto il suo mestiere di docente e di storico?
L’ebreo Marc Bloch, al quale dobbiamo questa espressione, “mestiere di storico”, sottotitolo di uno dei suoi libri più importanti, L’apologia della storia, era morto in un campo di concentramento tedesco, proprio perché cosciente del fatto che il mestiere di storico non può prescindere da quello di “essere umano” che ognuno di noi deve portare avanti su questa terra, come scriveva il cattolico Charles Peguy.
Vivanti, del resto, con la sua lezione, non aveva impedito a nessuno di essere fascista, non aveva imposto a nessuno di essere anti fascista, aveva letto quanto aveva scritto Alessandro Galante Garrone sulla normalità delle leggi razziste, su come fossero state accettate, senza battere ciglio, dalla stampa e dall’università e dalla scuola. Aveva ricordato che il fascismo era nato “ai bordi di un marciapiedi qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici”. E per questo occorreva essere attenti.
Ho spesso ripensato a quella lezione di Vivanti.
Qualche anno fa, sarà stato il 2018, mi trovavo a Bologna e una amica mi raccontò che suo figlio si era trovato a una festa di compleanno di un compagno di classe e a un certo punto il festeggiato aveva tirato fuori le torte di compleanno e su queste torte, in pasta di zucchero, invece di Harry Potter, c’era Hitler e due battute sui forni e le camere a gas.
Il ragazzino l’aveva raccontato alla mamma che a sua volta aveva posto il problema agli altri genitori, per nulla preoccupati o sorpresi, anzi avevano minimizzato parlando di uno scherzo da ragazzi. Allora, la mamma, era andata al consiglio di classe (mentre il ragazzino veniva isolato dai compagni per aver sollevato il caso) ma le prof le dissero che anche se il fatto riguardava un gruppo di compagni, tuttavia era accaduto fuori dalla scuola e quindi non potevano intervenire in alcun modo.
Ogni intervento sarebbe stato improprio. Del resto, aggiungevano genitori e insegnanti coinvolti, si stava esagerando: in Italia non esisteva alcun rischio che quelle che erano battute innocenti si tramutassero in gesti razzisti. I professori di quel liceo bolognese, tenendo la riflessione sulla storia recente e quindi la “politica” fuori dalla scuola, avevano fatto, insomma, il loro mestiere.
Alla fine dell’anno il figlio della mia amica ha cambiato scuola, e le torte di Hitler hanno continuato ad allietare le festicciole di adolescenti innocenti.
Chissà cosa avrebbe detto il professor Vivanti. Chissà cosa direbbe oggi.
Se la scuola debba occuparsi di quanto le succede di fronte può essere argomento di discussione. Ma non si vede come un appello di una preside all’antifascismo possa essere considerato addirittura un gesto eversivo.
Più eversivo di un pestaggio per strada per questioni politiche. Senza dubbio.