I danni economici della guerra e il rebus sanzioni alla Russia

Federico Fubini Corriere della Sera 25 febbraio 2023
I danni economici della guerra e il rebus sanzioni alla Russia
È ora di alzare la pressione, chiudere le falle nella rete, rendere le misure punitive più mirate anche contro chi le aggira e più concentrate sulle «tecnologie strategiche»

Qualche settimana fa il Fondo monetario internazionale ha pubblicato le sue previsioni, con una sgradevole sorpresa. L’anno prossimo vede in Russia una crescita superiore a quella di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia. Ogni previsione è provvisoria per natura, ovvio, ma cattura le sensazioni del momento. E questa — fatta a Washington di recente — conclude che, nel 2024, il Paese colpito dal più vasto sistema di sanzioni mai costruito da parte delle economie avanzate crescerà più di queste ultime. Possibile?

È appena il caso di ricordare che la frenata in Occidente non c’entra molto con le misure contro Mosca. Prima del conflitto l’export verso la Russia valeva appena lo 0,6% del fatturato sia dell’Unione europea che dell’Italia. E queste vendite, benché ridotte, continuano. Dunque le sanzioni potranno limare al massimo pochissimi decimali alla crescita dell’Italia o dell’Europa, niente di più. La colpa della frenata semmai è in buona parte della Russia stessa che ha aggredito l’Ucraina, perché è quella che alimenta il fuoco dell’inflazione e dunque anche la stretta delle banche centrali sui tassi d’interesse. Con le sanzioni non ci stiamo facendo male da soli: è Vladimir Putin con la sua guerra che ci danneggia.

Resta però la domanda più scomoda: com’è possibile le sanzioni più potenti mai varate nella storia stiano generando effetti così deboli? La Russia è entrata in recessione, sì, ma molto meno di quanto lo stesso Fondo monetario immaginasse all’inizio della guerra. In parte va così perché soprattutto l’Unione europea è stata lenta nello stringere le viti. Troppe grandi banche russe sono rimaste a lungo libere di operare anche con l’estero.

Molti buchi nella rete hanno permesso al mercato di Anversa di trattare i diamanti siberiani (che finanziano l’industria nucleare di Mosca) e la stessa Italia l’anno scorso ha raddoppiato, in modo perfettamente legale, il suo import di acciaio grezzo dalla Russia.

Ma il lento strangolamento industriale e finanziario della Russia si sta dimostrando difficile anche per ragioni più strutturali. Ormai noi Occidentali controlliamo gli snodi dell’economia globale meno di quanto ci illudessimo di fare all’inizio di questa guerra, soprattutto su alcuni prodotti strategici. E certi Paesi emergenti — Cina, Turchia, Emirati Arabi Uniti, in parte anche l’India — ora ci stanno disintermediando. Sono loro a complicare il tentativo degli europei e degli americani di isolare la Russia, tagliandola fuori dalle tecnologie più strategiche.

Un primo segnale si era avuto in estate (si veda il Corriere del 31 luglio) quando è risultato evidente che l’export dell’Italia verso la Turchia era esploso in parallelo all’export della Turchia verso la Russia. Molte imprese del made in Italy semplicemente hanno rapidamente imparato a triangolare le loro vendite attraverso Paesi che non applicano le sanzioni. Ora un rapporto di Silverado Policy Accelerator, un centro studi di Washington, dimostra che questo fenomeno in pochi mesi ha assunto scala globale risolvendo vari problemi per Putin. Ad aprile, subito dopo l’avvio delle misure di Bruxelles e di Washington, le importazioni della Russia erano crollate del 43% rispetto a un anno prima. Eppure da allora hanno ripreso a crescere fino a tornare in novembre alle loro medie degli anni scorsi. Certi oligarchi russi, sprezzanti, ormai dicono che non c’è niente che non si trovi a Mosca se si è pronti a pagare il 20% più del giusto. E pagare per loro non è mai stato un problema.

Quel che è successo è semplice: in novembre (ultimi dati) l’export europeo verso la Russia era quasi dimezzato dall’anno prima ma quello della Cina è esploso del 18 per cento, quello della Turchia è raddoppiato. Improvvisamente la piccola e arretrata Armenia ha decuplicato le sue importazioni di smartphone della Apple o della Samsung e le sue vendite alla Russia degli stessi prodotti sono esplose. Negli ultimi mesi dell’anno scorso, l’export italiano in Armenia è quasi triplicato. Ma più emblematico ancora è quel che è accaduto sui semiconduttori, vitali per i missili di precisione e i veicoli militari di Mosca. Subito prima della guerra la Russia aveva molto aumentato il suo import di microchip quindi le sanzioni, un anno fa, hanno determinato un crollo. Da allora però la Cina e Hong Kong hanno triplicato le loro vendite di circuiti integrati alla Russia, colmando almeno una parte del fabbisogno di Mosca. Anche sul petrolio sta accadendo qualcosa inquietante, dopo il 5 dicembre. Dall’inizio dell’embargo europeo sul greggio russo, gran parte delle petroliere europee sono state sostituite da vecchie «navi-ombra» di proprietà e nazionalità opaca e così per i misteriosi nuovi assicuratori di Dubai che rimpiazzano quelli di Londra o dell’Olanda.

Segno che è ora di alzare bandiera bianca, perché la guerra economica contro Putin non funziona? È vero il contrario: è ora di alzare la pressione, chiudere le falle nella rete, rendere le sanzioni più mirate anche contro chi le aggira e più concentrate sulle tecnologie strategiche. In un’economia globale così complessa non esistono colpi di bacchetta magica, nessuna misura da sola basta a cambiare gli equilibri. Non è successo in Iran, non accadrà in Russia. Ma le sanzioni alzano comunque il prezzo per Putin, gli rendono più duro proseguire la guerra. Le sanzioni accrescono anche il potere della Cina sull’uomo del Cremlino, perché è la Cina ormai che lo tiene a galla sul piano economico o tecnologico. E, ogni giorno di più, Pechino inizia a vedere in una pax cinese in Ucraina un dividendo da non perdere.

 

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