Massimo Giannini La Stampa 26 febbraio 2023
Perché l’Italia ha bisogno del Partito Democratico
Servirebbe quasi un appello “a tutti gli uomini liberi e forti” come quello che Don Sturzo rivolse agli italiani il 18 gennaio 1919, per convincere almeno un milione di cittadini coraggiosi ad accorrere questa mattina ai gazebo, per votare alle primarie del Pd.
Servirebbe la consapevolezza di “questa ora grave”, per spingerli a versare 2 euro e depositare quella scheda nell’urna, sentendo “alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria” e propugnando “nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà”. Ma sarebbe inutile. Non siamo nel ’19, anche se in giro tira un’arietta “diciannovista”.
Stefano Bonaccini e Elly Schlein non sono Don Sturzo. E in quel partito pare ormai perduta ogni gravitas, ogni coscienza di sé e del suo posto nel mondo e nella Storia. È una sinistra sospesa tra Kafka e Sanremo. Da una parte si macera in un congresso lungo cinque mesi, tra regole esoteriche e astrusi commi 22. Dall’altro lato si crogiola con le canzoni di Ultimo dopo aver dimenticato gli ultimi e con i testi di Rosa Chemical dopo aver archiviato quelli di Rosa Luxemburg.
Eppure a questa Italia in amore con Giorgia Meloni, a tratti più per consunzione che per convinzione, un’alternativa politica credibile e spendibile servirebbe come l’aria. Non perché i patrioti non abbiano gambe per camminare fino al termine della legislatura. Le hanno, eccome se le hanno. Anche se non saprà mai capire né accettare la benedetta pedagogia costituzionale di Sergio Mattarella, questa destra durerà.
Durerà nonostante i provvedimenti senza coperture finanziarie e i cedimenti senza vergogna alle lobby balneari, gli strappi di Berlusconi per l’amico Putin e gli spasmi di Salvini per le armi a Kiev, i pasticci sulle accise e i bisticci sul Superbonus, le bravate para-squadriste di Donzelli&Delmastro e le sparate cripto-fasciste di Fazzolari&Valditara.
Ma un’opposizione seria e solida è essenziale. Più Palazzo Chigi è contendibile e il ricambio è possibile, più la maggioranza dovrà almeno provare ad alzare gli standard di qualità del governo e abbassare il tasso di conflittualità interno. In caso contrario l’Italia rischia di scivolare verso un regime di democrazia bloccata.
Per certi versi simile a quella della Prima Repubblica dominata dall’eterna Dc, ma stavolta senza più neanche il contrappeso di un altro partito popolare di massa, per quanto interdetto dal “Fattore K”, come il Pci. Al suo posto, avremo chissà ancora per quanto un’accozzaglia informe di capi e capetti in conflitto sistemico, una rissosa macchinetta da guerra comunque votata alla disfatta permanente.
Per questo, comunque la si pensi, converrebbe al Paese che alle primarie del Pd ci fosse più partecipazione possibile. Non sarà né potrà essere una “festa di popolo”, come successe nel 2005, quando vinse Prodi col 71% e andarono a votare in 4 milioni e 311 mila.
Risultato impensabile, oggi. Vuoi per la diserzione generalizzata dalle urne che abbiamo già visto dilagare alle politiche del 25 settembre e poi alle regionali del 12 febbraio, dove al seggio sono andati 4 elettori su 10. Vuoi per la disaffezione specifica della gente di sinistra, già certificata dalle ultime primarie del 2019, quando vinse Zingaretti col 66% ma votarono solo in 1 milione e 582 mila. L’emorragia delle primarie è dolorosa: quasi 3 milioni di voti persi.
Quella delle politiche è addirittura clamorosa: nel 2008 il neonato Pd attraversato dallo “spirito del Lingotto” veltroniano prese 12 milioni di voti, oggi è sceso a 5,3 milioni. I voti persi, in questo caso, sfiorano i 7 milioni. Un disastro. Anche se in Lazio e in Lombardia il partito-zombi che tutti davano per spacciato ha perso ma è sopravvissuto, dimostrando un’inaspettata resilienza.
Il partito-kebab, che a ogni tornata elettorale viene fatto a fette da un nemico finché resterà soltanto l’osso, ha ancora carne e sangue per resistere. E persino il leader-ombra Enrico Letta, che tutti davano alla macchia, ha lasciato tracce non trascurabili. In questi mesi ne abbiamo dette, scritte e sentite di tutti i colori “sull’apposito Pd”. Partito ipotetico, prima liquido e poi gassoso. Partito in gabbia, fatto e finito.
Partito di baroni e di capibastone. Da ultimo, tra sacchi di petrodollari del Qatar e visite agli ergastolani di Sassari, anche partito corrotto e fiancheggiatore di mafiosi e terroristi. Persino il mite Gianni Cuperlo ha perso la pazienza: “Adesso basta, ci vuole rispetto per il Pd: non siamo né Sturzo né Gramsci, né Tina Anselmi né Nilde Jotti, ma non siamo nemmeno Brancaleone da Norcia”.
Purtroppo tra tante accuse esagerate c’è anche qualche amara verità. È vero che in questi anni, a forza di andare sempre un po’ più “oltre”, la sinistra si è smarrita. La malintesa “vocazione maggioritaria”, la pretesa del catch-all, la forza pigliatutto aperta inclusiva e contendibile, scevra da ideologismi e genericamente liberal, senza più ancoraggi a ceti e a classi, è finita in un “altrove” dove non si è più riconosciuta e non è stata più riconoscibile.
La fusione a freddo tra le due anime, l’ex democristiana e l’ex comunista, ha prodotto “l’amalgama mal riuscito”. Lo scarso spirito di appartenenza è diventato il difetto di fabbrica della “Ditta”, generando scissioni “a schiovere” e leadership a perdere, sempre sacrificate nell’assurda cerimonia cannibale officiata sull’altare del risentimento, dove sono passati Prodi e D’Alema, Veltroni e Bersani, Renzi e Letta.
Sempre più disancorato dai valori fondativi indicati da Bobbio, cioè libertà uguaglianza e solidarietà, il partito ha smesso di sognare e di pensare, ripiegandosi sulla gestione del potere e l’amministrazione di apparati e compiacendosi dei suoi stessi vizi: il “governismo” che l’ha sdraiato per 11 anni in un osceno kamasutra di larghe intese e unità nazionali senza un’elezione vinta, “l’elitismo” che ha coltivato nei salotti Ztl ricchi e riflessivi e sempre più lontani dalle periferie della marginalità e del disagio, il “correntismo” che l’ha immiserito nella cinica spartizione di tessere e prebende, candidature e poltrone.
È fatale, con queste premesse, che chiusa la parentesi feconda dell’Ulivo e dell’ingresso nell’euro il Pd abbia rotto i rapporti con la realtà, conquistando la borghesia e perdendosi il popolo. Abbia sbagliato la lettura della modernità, cavalcando i mercati globali e scaricando i mercati rionali.
Abbia inseguito la contemporaneità, inneggiando alle conquiste civili e snobbando le questioni sociali. Una svolta decisiva con Letta l’ha compiuta, e gliene va dato atto: ha virato definitivamente la prua verso Occidente, professando chiara fedeltà euroatlantica nell’ora più buia della sporca guerra di Putin.
Ma per il resto, a forza di Terze Vie e Jobs Act, rottamazioni e delocalizzazioni, la sinistra ha scordato il lavoro, non ha visto esplodere il precariato di massa, non ha compreso il dramma della disoccupazione giovanile e della sottoccupazione femminile. Ha lasciato il Reddito di Cittadinanza e ceduto il monopolio della povertà a Di Maio, Conte e Casalino.
Ha creduto nella “cetomedizzazione” del proletariato, senza accorgersi che le tre crisi d’epoca (il crac finanziario del 2008, il Covid del 2020 e ora l’emergenza bellica) hanno invece proletarizzato il ceto medio.
Ha scambiato temi “popolari” per stilemi populisti, banchettando a tavola coi tecnici di turno e buttando via tutti gli avanzi nel cassonetto dell’indifferenziata. Ha invocato genericamente “diritti”, che a sinistra è ormai il vacuo mantra di chi non sa cosa dire: senza alcuno sforzo concreto per metterli a terra e spiegare come si bilanciano, nella pratica, salute e libertà, lavoro e impresa, identità sessuale e famiglia, inizio e fine vita. “Un vago giusnaturalismo senza leggi positive”, scrive Massimo Cacciari, e meglio di così non si può dire.
Ora c’è chi vorrebbe far “tornare” il Pd, ma non sa più bene dove, perché il Sol dell’avvenire sorgerebbe avanti e non indietro. Così, mentre la destra governa, protegge e ricicla Dio-Patria-Famiglia, la sinistra vaga nel non-luogo cosmico. E nel “vuoto di idee” di cui parla Aldo Schiavone, e in cui ha perso “il cervello assai prima del cuore” (“Sinistra, un manifesto”, Einaudi), il partito celebra infine questo talent show delle primarie.
La campagna elettorale non ha svegliato cervelli né scaldato cuori. Doveva nascere una nuova “carta dei valori” condivisa, per dosare radicalità e riformismo, dire sì o no al salario minimo, ai fondi alla Guardia Costiera libica, alla schiavitù dell’algoritmo per i rider.
Ma niente da fare, la piattaforma comune non c’è. Ci sono invece i due sfidanti, Bonaccini e Schlein, che cercano di non farsi male tra loro, guidano insieme quel gran pezzo dell’Emilia ma incarnano due modelli diversi. Lui, pragmatico e moderato, è il “partito dei territori” (articolato nella trama solida dei cacicchi locali). Lei, movimentista e ambientalista, è il “partito delle soggettività” (liofilizzato nel flusso liquido dei mutamenti culturali). Lui è favorito tra gli iscritti e nei circoli: rassicura le nomenklature, anche se Togliatti diceva che chi amministra la Regione Rossa non può governare l’Italia.
Lei può sfondare nei gazebo: è donna, è giovane, anche se a sinistra l’esempio meloniano non sembra maturo, chissà mai perché. Chiunque vinca deve sapere due cose. La prima: il Pd ha di fronte una lunghissima e durissima traversata nel deserto, chi oggi vince le primarie difficilmente sarà anche il futuro candidato premier, dunque non servono personalismi ma solo umiltà e generosità.
La seconda: incassata la sconfitta ma scongiurata la scomparsa, adesso per il Pd conta solo ripensare un’identità politico-culturale e ricostruire un blocco sociale di riferimento, mentre è inutile farsi il sangue amaro per decidere se baciare o no il rospo pentastellato, visto che alle Europee del 2024 si voterà col proporzionale e ognuno andrà per conto suo.
Con tutti i suoi errori, le sue incertezze strategiche e le sue indecisioni tattiche, il Pd resta un partito fondamentale per la vita democratica del Paese. Per questo tutti gli italiani, compresi quelli che votano a destra, devono sperare che le primarie abbiano successo e l’opposizione si riorganizzi. Mentre quelli che votano a sinistra, come scriveva il poeta e padre nobile Franco Fortini, devono sperare che “tutto non è finito” e che “i giorni/ persi a noi giusti/ torneranno liberi”. Ma stavolta, se non si vuole sciogliere, la sinistra deve cominciare a scegliere.
L’appello al gazebo di Massimo Giannini
Massimo Giannini La Stampa 26 febbraio 2023
Perché l’Italia ha bisogno del Partito Democratico
Servirebbe quasi un appello “a tutti gli uomini liberi e forti” come quello che Don Sturzo rivolse agli italiani il 18 gennaio 1919, per convincere almeno un milione di cittadini coraggiosi ad accorrere questa mattina ai gazebo, per votare alle primarie del Pd.
Servirebbe la consapevolezza di “questa ora grave”, per spingerli a versare 2 euro e depositare quella scheda nell’urna, sentendo “alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria” e propugnando “nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà”. Ma sarebbe inutile. Non siamo nel ’19, anche se in giro tira un’arietta “diciannovista”.
Stefano Bonaccini e Elly Schlein non sono Don Sturzo. E in quel partito pare ormai perduta ogni gravitas, ogni coscienza di sé e del suo posto nel mondo e nella Storia. È una sinistra sospesa tra Kafka e Sanremo. Da una parte si macera in un congresso lungo cinque mesi, tra regole esoteriche e astrusi commi 22. Dall’altro lato si crogiola con le canzoni di Ultimo dopo aver dimenticato gli ultimi e con i testi di Rosa Chemical dopo aver archiviato quelli di Rosa Luxemburg.
Eppure a questa Italia in amore con Giorgia Meloni, a tratti più per consunzione che per convinzione, un’alternativa politica credibile e spendibile servirebbe come l’aria. Non perché i patrioti non abbiano gambe per camminare fino al termine della legislatura. Le hanno, eccome se le hanno. Anche se non saprà mai capire né accettare la benedetta pedagogia costituzionale di Sergio Mattarella, questa destra durerà.
Durerà nonostante i provvedimenti senza coperture finanziarie e i cedimenti senza vergogna alle lobby balneari, gli strappi di Berlusconi per l’amico Putin e gli spasmi di Salvini per le armi a Kiev, i pasticci sulle accise e i bisticci sul Superbonus, le bravate para-squadriste di Donzelli&Delmastro e le sparate cripto-fasciste di Fazzolari&Valditara.
Ma un’opposizione seria e solida è essenziale. Più Palazzo Chigi è contendibile e il ricambio è possibile, più la maggioranza dovrà almeno provare ad alzare gli standard di qualità del governo e abbassare il tasso di conflittualità interno. In caso contrario l’Italia rischia di scivolare verso un regime di democrazia bloccata.
Per certi versi simile a quella della Prima Repubblica dominata dall’eterna Dc, ma stavolta senza più neanche il contrappeso di un altro partito popolare di massa, per quanto interdetto dal “Fattore K”, come il Pci. Al suo posto, avremo chissà ancora per quanto un’accozzaglia informe di capi e capetti in conflitto sistemico, una rissosa macchinetta da guerra comunque votata alla disfatta permanente.
Per questo, comunque la si pensi, converrebbe al Paese che alle primarie del Pd ci fosse più partecipazione possibile. Non sarà né potrà essere una “festa di popolo”, come successe nel 2005, quando vinse Prodi col 71% e andarono a votare in 4 milioni e 311 mila.
Risultato impensabile, oggi. Vuoi per la diserzione generalizzata dalle urne che abbiamo già visto dilagare alle politiche del 25 settembre e poi alle regionali del 12 febbraio, dove al seggio sono andati 4 elettori su 10. Vuoi per la disaffezione specifica della gente di sinistra, già certificata dalle ultime primarie del 2019, quando vinse Zingaretti col 66% ma votarono solo in 1 milione e 582 mila. L’emorragia delle primarie è dolorosa: quasi 3 milioni di voti persi.
Quella delle politiche è addirittura clamorosa: nel 2008 il neonato Pd attraversato dallo “spirito del Lingotto” veltroniano prese 12 milioni di voti, oggi è sceso a 5,3 milioni. I voti persi, in questo caso, sfiorano i 7 milioni. Un disastro. Anche se in Lazio e in Lombardia il partito-zombi che tutti davano per spacciato ha perso ma è sopravvissuto, dimostrando un’inaspettata resilienza.
Il partito-kebab, che a ogni tornata elettorale viene fatto a fette da un nemico finché resterà soltanto l’osso, ha ancora carne e sangue per resistere. E persino il leader-ombra Enrico Letta, che tutti davano alla macchia, ha lasciato tracce non trascurabili. In questi mesi ne abbiamo dette, scritte e sentite di tutti i colori “sull’apposito Pd”. Partito ipotetico, prima liquido e poi gassoso. Partito in gabbia, fatto e finito.
Partito di baroni e di capibastone. Da ultimo, tra sacchi di petrodollari del Qatar e visite agli ergastolani di Sassari, anche partito corrotto e fiancheggiatore di mafiosi e terroristi. Persino il mite Gianni Cuperlo ha perso la pazienza: “Adesso basta, ci vuole rispetto per il Pd: non siamo né Sturzo né Gramsci, né Tina Anselmi né Nilde Jotti, ma non siamo nemmeno Brancaleone da Norcia”.
Purtroppo tra tante accuse esagerate c’è anche qualche amara verità. È vero che in questi anni, a forza di andare sempre un po’ più “oltre”, la sinistra si è smarrita. La malintesa “vocazione maggioritaria”, la pretesa del catch-all, la forza pigliatutto aperta inclusiva e contendibile, scevra da ideologismi e genericamente liberal, senza più ancoraggi a ceti e a classi, è finita in un “altrove” dove non si è più riconosciuta e non è stata più riconoscibile.
La fusione a freddo tra le due anime, l’ex democristiana e l’ex comunista, ha prodotto “l’amalgama mal riuscito”. Lo scarso spirito di appartenenza è diventato il difetto di fabbrica della “Ditta”, generando scissioni “a schiovere” e leadership a perdere, sempre sacrificate nell’assurda cerimonia cannibale officiata sull’altare del risentimento, dove sono passati Prodi e D’Alema, Veltroni e Bersani, Renzi e Letta.
Sempre più disancorato dai valori fondativi indicati da Bobbio, cioè libertà uguaglianza e solidarietà, il partito ha smesso di sognare e di pensare, ripiegandosi sulla gestione del potere e l’amministrazione di apparati e compiacendosi dei suoi stessi vizi: il “governismo” che l’ha sdraiato per 11 anni in un osceno kamasutra di larghe intese e unità nazionali senza un’elezione vinta, “l’elitismo” che ha coltivato nei salotti Ztl ricchi e riflessivi e sempre più lontani dalle periferie della marginalità e del disagio, il “correntismo” che l’ha immiserito nella cinica spartizione di tessere e prebende, candidature e poltrone.
È fatale, con queste premesse, che chiusa la parentesi feconda dell’Ulivo e dell’ingresso nell’euro il Pd abbia rotto i rapporti con la realtà, conquistando la borghesia e perdendosi il popolo. Abbia sbagliato la lettura della modernità, cavalcando i mercati globali e scaricando i mercati rionali.
Abbia inseguito la contemporaneità, inneggiando alle conquiste civili e snobbando le questioni sociali. Una svolta decisiva con Letta l’ha compiuta, e gliene va dato atto: ha virato definitivamente la prua verso Occidente, professando chiara fedeltà euroatlantica nell’ora più buia della sporca guerra di Putin.
Ma per il resto, a forza di Terze Vie e Jobs Act, rottamazioni e delocalizzazioni, la sinistra ha scordato il lavoro, non ha visto esplodere il precariato di massa, non ha compreso il dramma della disoccupazione giovanile e della sottoccupazione femminile. Ha lasciato il Reddito di Cittadinanza e ceduto il monopolio della povertà a Di Maio, Conte e Casalino.
Ha creduto nella “cetomedizzazione” del proletariato, senza accorgersi che le tre crisi d’epoca (il crac finanziario del 2008, il Covid del 2020 e ora l’emergenza bellica) hanno invece proletarizzato il ceto medio.
Ha scambiato temi “popolari” per stilemi populisti, banchettando a tavola coi tecnici di turno e buttando via tutti gli avanzi nel cassonetto dell’indifferenziata. Ha invocato genericamente “diritti”, che a sinistra è ormai il vacuo mantra di chi non sa cosa dire: senza alcuno sforzo concreto per metterli a terra e spiegare come si bilanciano, nella pratica, salute e libertà, lavoro e impresa, identità sessuale e famiglia, inizio e fine vita. “Un vago giusnaturalismo senza leggi positive”, scrive Massimo Cacciari, e meglio di così non si può dire.
Ora c’è chi vorrebbe far “tornare” il Pd, ma non sa più bene dove, perché il Sol dell’avvenire sorgerebbe avanti e non indietro. Così, mentre la destra governa, protegge e ricicla Dio-Patria-Famiglia, la sinistra vaga nel non-luogo cosmico. E nel “vuoto di idee” di cui parla Aldo Schiavone, e in cui ha perso “il cervello assai prima del cuore” (“Sinistra, un manifesto”, Einaudi), il partito celebra infine questo talent show delle primarie.
La campagna elettorale non ha svegliato cervelli né scaldato cuori. Doveva nascere una nuova “carta dei valori” condivisa, per dosare radicalità e riformismo, dire sì o no al salario minimo, ai fondi alla Guardia Costiera libica, alla schiavitù dell’algoritmo per i rider.
Ma niente da fare, la piattaforma comune non c’è. Ci sono invece i due sfidanti, Bonaccini e Schlein, che cercano di non farsi male tra loro, guidano insieme quel gran pezzo dell’Emilia ma incarnano due modelli diversi. Lui, pragmatico e moderato, è il “partito dei territori” (articolato nella trama solida dei cacicchi locali). Lei, movimentista e ambientalista, è il “partito delle soggettività” (liofilizzato nel flusso liquido dei mutamenti culturali). Lui è favorito tra gli iscritti e nei circoli: rassicura le nomenklature, anche se Togliatti diceva che chi amministra la Regione Rossa non può governare l’Italia.
Lei può sfondare nei gazebo: è donna, è giovane, anche se a sinistra l’esempio meloniano non sembra maturo, chissà mai perché. Chiunque vinca deve sapere due cose. La prima: il Pd ha di fronte una lunghissima e durissima traversata nel deserto, chi oggi vince le primarie difficilmente sarà anche il futuro candidato premier, dunque non servono personalismi ma solo umiltà e generosità.
La seconda: incassata la sconfitta ma scongiurata la scomparsa, adesso per il Pd conta solo ripensare un’identità politico-culturale e ricostruire un blocco sociale di riferimento, mentre è inutile farsi il sangue amaro per decidere se baciare o no il rospo pentastellato, visto che alle Europee del 2024 si voterà col proporzionale e ognuno andrà per conto suo.
Con tutti i suoi errori, le sue incertezze strategiche e le sue indecisioni tattiche, il Pd resta un partito fondamentale per la vita democratica del Paese. Per questo tutti gli italiani, compresi quelli che votano a destra, devono sperare che le primarie abbiano successo e l’opposizione si riorganizzi. Mentre quelli che votano a sinistra, come scriveva il poeta e padre nobile Franco Fortini, devono sperare che “tutto non è finito” e che “i giorni/ persi a noi giusti/ torneranno liberi”. Ma stavolta, se non si vuole sciogliere, la sinistra deve cominciare a scegliere.