Marco Zatterin La Stampa 27 febbraio 2023
Landini: “Serve la settimana di quattro giorni, così daremo piena dignità al lavoro”
Il segretario generale della Cgil: «In bocca al lupo al nuovo leader democratico. Nessun consiglio, ma ricordo che la gente ti giudica per quello che fai non che dici»
Prima di ragionare del Pd che inaugura il nuovo corso in una Italia che «sempre più povera», Maurizio Landini vuol parlare della Cigl. Annuncia che, al congresso del primo sindacato italiano di metà marzo, sarà lanciata la proposta della settimana lavorativa di quattro giorni.
«Con le nuove tecnologie le imprese hanno una maggiore produttività e possono redistribuire la ricchezza», spiega il segretario della Confederazione generale, che auspica incentivi per le aziende che accettassero di tagliare l’orario. È una idea per i democratici a caccia di consenso, magari, e per un paese troppo precario. Non l’unica, in effetti. Anche se, concede, «non ho consigli da dare al di là di un sincero in bocca al lupo al nuovo numero uno».
Nessun suggerimento?
«Nessuno. È però cruciale che la politica riparta dalla partecipazione delle persone, e continuo a pensare che il tema sia rimettere al centro i bisogni di chi per vivere ha bisogno di lavorare. L’obiettivo deve essere il superamento della precarietà, il diritto a realizzarsi nel proprio lavoro, riforme che redistribuiscano la ricchezza».
Cominciando da dove?
«Da una vera riforma fiscale e da un nuovo statuto dei diritti dei lavoratori che ponga fine alla competizione fra dipendenti ed autonomi. Questo, in una cornice di politiche pubbliche basate sul diritto alla salute, alla conoscenza e a un lavoro dignitoso».
Sono cose che il Pd ha sempre detto.
«Le persone non giudicano quello che dici, ma quello che fai. Abbiamo assistito a una rottura fra il lavoro e la rappresentanza politica che ha coinvolto anche la sinistra. Se il 60 per cento non vota, vuol dire che occorre cambiare politiche e avviare una vera lotta contro le diseguaglianze. Basta con cose come Jobs act, basta con la precarietà».
Ci stiamo giocando la sinistra. In Italia e in Europa?
«Le persone hanno bisogno di risposte, perché la rottura è già in atto. Questo è il tema di fondo, in un momento di grande cambiamento, climatico, digitale, di guerra oltretutto. Rimettere il lavoro e la persona al centro implica assumere la nostra costituzione come principio e valore da realizzare attraverso azioni coerenti. L’Italia è lacerata e divisa. Il problema è come ricostruire una fiducia che è venuta meno difendendo gli interessi di chi ha bisogno di lavoro».
Il nuovo Pd deve allargare le intese a sinistra?
«Io faccio il sindacalista. In quanto tale chiedo alle forze politiche di confrontarsi con le proposte delle organizzazioni sindacali. Il problema non sono solo le alleanze, ma i contenuti delle azioni che fai. Oggi serve il superamento della precarietà, una legge sulla rappresentanza, sul valore generale dei contratti nazionali su cui definire un salario minimo. Serve un vero nuovo patto fiscale che non faccia del lavoro l’unico contribuente del Fisco. Occorre una vera lotta all’evasione. Così, e solo così si ristabilisce il rapporto coi cittadini. Detto questo, non sta me indicare alle forze politiche come devono parlarsi».
Dopo i fatti di Firenze, c’è un allarme squadrismo?
«Quanto avvenuto è un atto squadrista e fascista. È preoccupante che nessun esponente di governo abbia preso la parola per denunciare l’aggressione agli studenti e, anzi, che un ministro abbia minacciato di sanzionare la direttrice scolastica che ha fatto ciò che fare nel rispetto della nostra Costituzione. La scuola è luogo di cultura e formazione di persone. Chi l’attacca, attacca la Costituzione. Non si può stare a guardare. Il 4 marzo, a Firenze, ci sarà una manifestazione di cittadini, studenti, insegnanti, lavoratori e lavoratrici, per difendere la democrazia e la nostra Carta fondata sull’antifascismo».
Un fatto casuale o una tendenza?
«Solo un anno fa c’è stato un assalto alla Cgil nazionale. Quello succede oggi era già cominciato. Si è arrivati a pensare possibile l’assalto alla casa dei lavoratori. Adesso qualcuno ha bruciato la lettera della preside. Rischiamo di tornare indietro. Non possiamo guardare inerti. Abbiamo chiesto di sciogliere tutte le formazioni che si rifanno al fascismo e contro la Costituzione. La democrazia la si difende praticandola».
A proposito. Come va col governo? Meglio o peggio del previsto?
«Sin qui sono stati confronti finti. Prima hanno scritto la Finanziaria e poi ne hanno discusso con noi. Su pensioni, fisco e precarietà, aumento dei salari, ad oggi non ci sono state risposte. Anzi, il ritorno dei voucher e la flat tax sono andati nella direzione opposta di quello di cui secondo noi c’è bisogno. Hanno pure disegnato l’autonomia differenziata, è il peggio che si potrebbe fare: aumenta la divisione in un Paese già diviso. Il confronto non c’è ed è un errore».
Perché?
«Le riforme non si possono fare senza, o contro, la rappresentanza del mondo del lavoro».
Promettono un taglio del cuneo fiscale di cinque punti nella legislatura. Basta?
«Noi abbiamo chiesto di passare da due punti a cinque adesso, perché è ora che non si riesce ad arrivare alla fine del mese. Non si può attendere cinque anni. Chiedevamo di tassare gli extraprofitti e un contributo di solidarietà: niente. Non hanno neanche messo un euro per il rinnovo dei contratti del settore pubblico, e ci sono sei milioni di persone nel privato stanno aspettando una intesa nazionale. Ad oggi, non c’è confronto di merito e le azioni sono inadeguate».
Diciotto paesi sperimentano la settimana di quattro giorni. E noi?
«È una delle proposte che, come Cgil, avanzeremo a metà marzo al nostro congresso. Di fronte alla rivoluzione tecnologica, che porta ad un aumento di profitti e produttività, si deve praticare la ridistribuzione della ricchezza e di come questa viene accumulata, anche attraverso la riduzione dei tempi di lavoro».
Come?
«Contrattando modelli organizzativi su quattro giorni di lavoro settimanali e per le imprese la possibilità di utilizzare gli impianti sino a sei giorni la settimana. Il tutto, prevedendo il diritto alla formazione e all’aggiornamento per tutta la vita lavorativa».
Ma se si lavora meno, si è pagati di meno?
«No. Perché aumenta la produttività. Non è un problema individuale, ma di sistema. La riorganizzazione del lavoro, e la disponibilità ad un maggior aumento dei servizi e della produttività, vanno redistribuiti in ricerca e innovazione, ad esempio. Abbiamo già orari più alti, e salari più bassi in Europa. Si può fare».
Credete negli incentivi per frenare il precariato?
«Queste cose sono già state fatte, in passato. Si è visto che non servono. Oggi abbiamo più di tre milioni di contratti a termine e sono aumentati i part time involontari. Ci sono 5-6 milioni di persone che, pur lavorando, non arrivano a diecimila euro l’anno. L’unica vera riforma possibile è cancellare le forme di lavoro precario assurde e indicare che c’è un unico contratto di ingresso al lavoro che sia basato sulla formazione. Bisogna voltare pagine».
Servono le agevolazioni a sostegno del lavoro?
«Ultimamente sono stati dati aiuti a pioggia. Invece, bisogna ragionare in termini selettivi che rientrino in una idea di politica industriale. Si individuano i settori strategici, si incentivano e premiano i comportamenti virtuosi come la riduzione degli orari di lavoro. Non chi delocalizza, ma chi aumenta occupazione stabile, chi investe nell’innovazione dei prodotti e dei processi».
Il governo propone l’inclusione attiva al posto del reddito di cittadinanza. Cosa hanno in mente?
«Non ho capito. L’unica cosa che so è che da settembre viene cancellato il sostegno in un Paese con quasi sei milioni di persone in condizioni di povertà assoluta. Mentre la rendita finanziaria è tassata meno del lavoro dipendente. Non ho capito come vogliono fare. Non c’è stato alcun confronto».
Che cosa proponete?
«Migliorare lo strumento che già c’è, rafforzando gli interventi sul territorio, investendo sui servizi sociali. Ad oggi, c’è solo una cancellazione».
Come ha preso la fine del Superbonus?
«Ancora una volta i sindacati non sono stati convocati. La realtà è che si mettono a rischio posti di lavoro e imprese. E si torna indietro sul recupero del patrimonio edilizio esistente. Affrontare il tema, implica come abbiamo sempre detto, mettere dei criteri selettivi e dei perimetri. Ad esempio, confermando la cessione del credito per i redditi Isee sino a a 30-35 mila, ripristinando i provvedimenti per le zone terremotate, l’abbattimento delle barriere architettoniche, per mettere a norma gli istituti pubblici».
Torniamo al clima generale. Sabato ha partecipato alla manifestazione per la pace. Che clima c’era?
«In 120 città italiane, e in tante capitali, è sceso in campo un mondo vastissimo, laico e cattolico, che non accetta il rischio di una guerra mondiale e nucleare. È il sintomo di una maggioranza dell’opinione pubblica che è contro la guerra come mezzo per risolvere i rapporti fra gli stati. L’atomica non comporta né vinti, né vincitori. I governi devono credere nel negoziato. È l’unico strumento per ripristinare la pace».
Mentre si negozia, gli ucraini devono pur difendersi, però.
«Certo che c’è il diritto alla difesa. Ma sino ad oggi nessuno ha lavorato per un vero negoziato. Dopo un anno, c’è aumento delle spese per armamenti nel mondo del 110 per cento, e questo aumenta solo il rischio di una guerra nucleare. Non si può continuare così».