Annegati per colpa loro

Chiara Saraceno La Repubblica 28 febbraio 2023
Annegati per colpa loro
Se annegano è colpa loro. Pur di scappare da una situazione che ritengono invivibile e senza speranza per sé e i propri figli, raccolgono i risparmi di una vita per pagare (molto) trafficanti senza scrupoli che li trasportano su barchini insicuri verso le nostre coste. È quanto suggerisce Piantedosi con l’affermazione “la disperazione non giustifica i viaggi a rischio”, allontanando ogni responsabilità.

 

Come se non sapesse che è proprio la disperazione di vivere in un Paese che non offre nessuna speranza di una vita degna di essere vissuta e in cui si può rischiare di morire ogni giorno, a seconda dei casi per fame, guerra civile, un velo mal messo, mancata adesione alla dittatura di turno, a far preferire la lotteria della traversata e dei suoi loschi trafficanti.

Se valesse la logica di Piantedosi, secondo la quale non c’è situazione intollerabile che giustifichi il mettere a rischio la vita, non solo non si dovrebbe mai fuggire da situazioni intollerabili, ma non ci si dovrebbe mai ribellare. Sventate e imprudenti sono, in questa logica, anche le donne iraniane che da mesi sfidano, con il concreto rischio di essere incarcerate e/o uccise, un regime che non solo le vuole velate e sottomesse, ma, si è scoperto, avvelena le scolare per avere una scusa per chiudere le loro scuole. O le afghane che si rifiutano di essere ricacciate nell’ignoranza e nella subordinazione ai maschi.

O gli ucraini, che si ostinano a difendersi dall’invasione russa, anche con il nostro aiuto, nonostante ciò stia costando migliaia di morti. A meno che non si pensi che il diritto a una vita dignitosa e alla libertà valga più per alcuni che per altri, così come ci sono migranti “per disperazione” più o meno meritevoli di accoglienza a seconda del Paese di provenienza: gli ucraini sì, gli afghani, i siriani, i pakistani, i nigeriani no. O peggio, che si pensi che ci sono popolazioni che hanno diritto ad avere diritti e ad una vita dignitosa, mentre altre nonli hanno e che il dove nasci è un destino che non puoi pretendere di cambiare, anche se è intollerabile e non ti assicura neppure la sopravvivenza.

È indirettamente quanto suggerisce la presidente del Consiglio che, a fronte non solo della tragedia degli annegamenti sulla battigia, ma dell’evidenza che si trattava di persone provenienti per lo più da Paesi caratterizzati da dittature feroci e/o guerre civili, ha riaffermato la necessità di accordi con i Paesi di origine per bloccare le partenze come unica soluzione. Il caso Libia, purtroppo, non ha insegnato nulla.

L’alternativa ai “viaggi a rischio”, all’immigrazione irregolare e ai trafficanti di morte non è né l’accordo con le dittature né la criminalizzazione delle Ong e la riduzione dei salvataggi in mare, né la costruzione di muri, là dove è possibile farlo. Come si è visto in questi mesi, chi vuole andarsene dal suo Paese e venire in Europa continua a farlo come e più di prima. Al più cambiano le rotte, per mare e per terra.

Ciò non significa, come accusa Meloni, volere un’immigrazione totalmente senza controllo. Nella consapevolezza che non c’è una soluzione onnicomprensiva e che è impossibile fermare del tutto i fenomeni migratori in un mondo non solo molto diseguale, ma scosso continuamente da guerre, carestie, terremoti, gravi lesioni ai diritti umani, si può cercare almeno di regolarli là dove è possibile: con investimenti nei Paesi di emigrazione che forniscano un minimo di garanzie non solo sull’uso dei fondi, ma sui diritti umani, civili e politici dei loro abitanti; con l’attivazione e ampliamento di corridoi umanitari per chi si trova in condizioni di pericolo; con una programmazione dei flussi migratori legali che dia un minimo di certezze e garanzie sia a chi vuole emigrare sia a chi – imprese e famiglie – ha bisogno di lavoratori stranieri.

 

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