Daniele Raineri La Repubblica 1 marzo 2023
“Mancava un’ora per colpire il Cremlino” E l’Ucraina ribalta i confini della guerra
È da quando il diciannovenne tedesco Mathias Rust beffò i sistemi di difesa aerea sovietici e atterrò con un piccolo aereo da turismo sulla Piazza Rossa di Mosca in piena Guerra fredda, nel 1987, che i russi non si sentivano così vulnerabili dall’alto.
Un attacco multiplo con droni ucraini ha gettato nella confusione le autorità della Russia per quindici ore, tra la sera di lunedì e ieri mattina. È arrivato con molte esplosioni a Belgorod, che è un bersaglio facile a soli quaranta chilometri dal confine con l’Ucraina, ma ha creato il panico a San Pietroburgo per contagio psicologico (l’aeroporto è stato chiuso) e ha lambito anche la regione di Mosca. «Se il drone caduto cento chilometri a Sud della capitale avesse proseguito – dicono le autorità russe – in meno di un’ora sarebbe arrivato al Cremlino».
Non si tratta di una novità assoluta.
L’Ucraina aveva già cominciato a inizio dicembre una campagna di attacchi con droni di media grandezza che possono volare per centinaia di chilometri. Aveva colpito a sorpresa l’aeroporto militare di Engels, molto in profondità a Est, da dove partono i bombardieri che sparano missili sulle città ucraine, e aveva raggiunto anche la base militare di Dyagilevo, 160 chilometri a Sud di Mosca. Una di queste due operazioni, secondo una fonte ucraina sentita dal New York Times ,era stata aiutata da una squadra delle forze speciali ucraine che era presente sul posto e aveva guidato il drone nell’ultimo tratto di volo.
Pochi giorni dopo, altri droni avevano colpito un deposito di petrolio nella regione di Kursk, a 130 chilometri dal confine con l’Ucraina. Era soltanto questione di tempo prima che gli ucraini – che in via ufficiale non commentano e non confermano – lanciassero nuovi raid. L’operazione di ieri è la prosecuzione di questa campagna, che è un’ovvia risposta alla campagna lanciata dalla Russia a metà ottobre per distruggere lecentrali elettriche ucraine con droni esplosivi fabbricati in Iran.
Dal punto di vista della percezione della guerra, è la rottura di un tabù per gli spettatori occidentali: l’idea tutta da dimostrare che la Russia può colpire in Ucraina ma il contrario non può succedere, altrimenti è “una provocazione”.
Ieri il presidente russo ha annunciato di avere ordinato ai servizi di sicurezza (Fsb) di dare la caccia ai sabotatori, definiti «feccia nazista». Quest’ordine rafforza l’idea che i raid a lunga distanza dei droni siano aiutati da osservatori nascosti a terra.
Gli ucraini usano droni commerciali e in questo caso il modello è l’UJ-22 – si vede dai resti fotografati nella regione moscovita – che può volare per 800 chilometri con un carico di venti chilogrammi.
In teoria, se i russi non se ne accorgono, può decollare da Kharkiv e arrivare a Mosca e oltre, ma non è invisibile ai radar, vola al massimo a 160 chilometri l’ora ed è facile da abbattere. Eppure, come si è visto, buca le difese aeree. Gli UJ-22 sono fabbricati in Ucraina e non sono armi occidentali: è un dettaglio importante, perché l’Amministrazione Biden, a dispetto dell’alleanza fortissima con il presidente Zelensky, ha finora negato la fornitura di missili capaci di volare per 300 chilometri proprio per evitare che siano usati per colpire bersagli sul territorio russo.
Washington vuole riservarsi quei missili come materia di negoziato con Mosca e vuole contenere il conflitto. Eppure non è tutto ucraino in questi raid. I droni trovati intatti lunedì sera a Belgorod avevano una testata esplosiva formata da due panetti di plastico da demolizione (circa tre chilogrammi) che ancora portavano la stampigliatura – vengono dalla Gran Bretagna, facevano parte di una consegna di aiuti militari. È una quantità di plastico ridotta, ma se colpisce una raffineria o un deposito di carburante può appiccare un rogo.