Gianluca Di Feo La Repubblica 4 marzo 2023
Meloni negli Emirati ricuce lo strappo nel nome delle armi
Missione della premier per un accordo di “partnership strategica” che rilanci la cooperazione militare e industriale interrotta nel 2021. Due anni fa Conte bloccò una fornitura bellica. La risposta fu la chiusura della base italiana nel Golfo
Le dinastie arabe guardano al futuro con gli occhi della tradizione. Gli accordi siglati dai sovrani valgono per una generazione e, come il loro potere, sono assoluti. Mal si adattano all’alternanza dei governi europei, tanto più al frenetico ricambio di quelli italiani. E faticano a misurarsi con le dinamiche delle democrazie occidentali, dove le magistrature sono indipendenti e l’opinione pubblica fa campagne per i diritti civili.
Così Giorgia Meloni negli Emirati si trova a cercare di chiudere una lunga catena di incomprensioni che da oltre dieci anni tormenta i rapporti tra i due Paesi, passati spesso dall’idillio alla crisi con una rapidità che ha bruciato commesse e dissolto investimenti.
Il fatto che la premier sia andata di persona ad Abu Dhabi a firmare un patto di “partenariato strategico” dovrebbe testimoniare la volontà di chiudere l’ultimo di questi screzi, forse quello che ha pesato di più: l’embargo sulla vendita di armi deciso nel gennaio 2021. Un’iniziativa tutta pentastellata, voluta dal sottosegretario Manlio Di Stefano per punire l’intervento nel conflitto yemenita e benedetta dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Un chiaro messaggio di pace, il rispetto dei diritti umani è inderogabile».
E allora perché – venne fatto notare con irritazione da Dubai – consegnate navi da guerra ad Al Sisi e date a Erdogan gli elicotteri per attaccare i curdi? Negli Emirati l’iniziativa del governo Conte è stata considerata un tradimento. Non tanto per il merito della sanzione – è stata bloccata la cessione di bombe da aereo facilmente reperibili altrove – quanto per il messaggio di sfiducia. Da anni infatti la casa regnante aveva concesso all’Italia l’installazione di una base militare, indispensabile per gestire le operazioni delle nostre truppe prima in Iraq, poi in Afghanistan: ogni rifornimento arrivava nel Golfo via mare e veniva trasferito con un ponte aereo.
Per un ventennio munizioni, mezzi e soldati hanno sfruttato questa opportunità, con migliaia di decolli e atterraggi. Il trattato era stato rinnovato da poco, con una spesa milionaria per ristrutturare l’hub tricolore, quando il bando sugli ordigni “made in Italy” ha spinto le autorità emiratine a ordinarne la chiusura. E ad aprire una fase molto turbolenta nelle relazioni, mandando in fumo commesse miliardarie.
C’era già stata un’altra crisi, dieci anni prima, legata alle ultime iniziative del governo Berlusconi: il contratto siglato da Finmeccanica – che non si chiamava ancora Leonardo – per vendere 46 jet d’addestramento. Doveva essere il trampolino di lancio per un’alleanza strategica con ricadute industriali straordinarie: per accontentare i desideri della casa regnante è stato persino creato un clone delle Frecce Tricolori, una pattuglia acrobatica sugli identici velivoli con piloti formati a Rivolto dagli istruttori dell’Aeronautica.
Dopo le firme solenni però è emerso l’inghippo: Finmeccanica si era impegnata a realizzare a Dubai una fabbrica di droni hi-tech, ma non possedeva l’autorizzazione per vendere alcune componenti chiave di origine americana. Non solo hanno stracciato il contratto, ma ministri e generali arabi si sono infuriati per quello che ritenevano un vero raggiro.
Mario Monti a Palazzo Chigi si è dato da fare per superare l’ostacolo: ha convinto gli emiri a investire nella Piaggio Aerospace ligure, che avrebbe progettato un super-drone tutto per loro. Matteo Renzi su questa scia ha portato Etihad a farsi carico di Alitalia.
Entrambe le partite sono finite molto male, trasformando le opportunità in ulteriori liti. Il prototipo a forma di squalo del drone Piaggio è precipitato misteriosamente in mare e la gestione disastrosa della compagnia di bandiera è stata incriminata per bancarotta: il processo si aprirà a maggio nel tribunale di Civitavecchia e Etihad potrebbe ritrovarsi a pagare il conto. Mario Draghi ha preso in mano i dossier ma è difficile spiegare a sovrani onnipotenti come Mohammed Bin Zayed che da noi la magistratura non obbedisce al governo. Lentamente sono però stati riallacciati i canali di dialogo e ora c’è forse l’occasione per voltare pagina. Gli Emirati vogliono ripartire dove le relazioni si sono interrotte: le forniture militari, che danno il peso del legame politico.
Il loro sogno sarebbe una flotta consegnata “chiavi in mano” da Fincantieri, con tanto di equipaggi addestrati in Italia, come sta avvenendo con il Qatar. Solo che chiedono di costruire le navi nei nuovi impianti del Golfo per diventare produttori ed esportatori di sistemi hi-tech. Si può fare? Il ministro della Difesa Guido Crosetto è andato lì meno di un mese fa, poi la scorsa settimana ci sono state le visite dei vertici delle forze armate, infine la firma di un accordo tra Fincantieri e il gruppo statale locale Edge. La rotta è stata tracciata, sperando che non si alzino nuove bufere.