Covid, Remuzzi: “La vera colpa sono questi 3 anni di nulla nella sanità”

Francesca Del Vecchio La Stampa 5 marzo 2023
Covid, Remuzzi: “Inutile cercare colpevoli, ma in questi tre anni non è stato fatto nulla”
Il direttore dell’Istituto Negri: «Servirebbe una sanità pubblica forte invece siamo nelle stesse condizioni del 2020 e con meno medici»


«Abbiamo bisogno di silenzio, come quello del presidente Sergio Mattarella – immobile – davanti alle bare dei naufraghi di Cutro. Quei morti sono come quelli della pandemia. Inutile cercare i colpevoli nelle aule di tribunale». Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, non vuole commentare l’inchiesta di Bergamo sulla gestione dell’epidemia in Val Seriana. «Ho le mie idee e me le tengo. Mi chiedo solo se non sia arrivato il momento di occuparci di mettere a frutto la lezione che dovremmo aver imparato dal Covid».

Professore, a cosa si riferisce?
«Mi colpisce che nessuno discuta di come il nostro sistema sanitario sia arrivato ad affrontare la pandemia. Perché in circostanze come quella epidemica o pandemica, la risposta non può che essere di salute pubblica. E, per esempio, in Lombardia non abbiamo fatto altro che svuotare progressivamente la medicina pubblica a favore di privati a cui abbiamo appaltato una serie di attività, finché questa situazione è diventata talmente ipertrofica da diventare forse più del 50% del nostro sistema sanitario. Tra l’altro, parliamo non di un privato davvero privato, ma di un accreditato che viene pagato con i fondi pubblici. Perché non ci chiediamo se oggi saremmo pronti per la prossima pandemia che arriverà. Cosa abbiamo fatto in questi tre anni? La risposta è semplice: nulla. Siamo nelle stesse condizioni di tre anni fa. Con alcune aggravanti: abbiamo meno medici di prima, meno infermieri di prima e un’aberrazione come lo è il meccanismo dei medici a gettone che vanno nei pronto soccorso senza che si sappia che tipo di qualifica abbiano. E in più guadagnano in un turno quello che un medico di ps guadagna in un mese. Ecco, non stiamo guardando i problemi importanti perché siamo troppo concentrati a dire che “è colpa di quello o di quell’altro”».

Dunque, l’inchiesta non serve?
«È un atto dovuto nei confronti dei familiari delle vittime, del loro dolore. Ma la verità è che qui a Bergamo non avevamo nulla. Né bombole d’ossigeno, né presìdi per proteggere gli operatori sanitari. Ora abbiamo il Pnrr che, nella Missione 6 Salute, specifica esattamente di cosa ha bisogno il nostro sistema sanitario. Non dobbiamo fare altro che attuare ciò che anche l’Europa ci suggerisce: ospedali di prossimità, case della comunità. Ma serve che tutto questo qualcuno lo gestisca. Altrimenti è inutile. Anche avere un piano pandemico è inutile se non viene implementato. E in ogni caso, non è una cosa che si mette in piedi in pochi giorni. Dietro c’è una preparazione teorica e pratica degli operatori, si fanno delle esercitazioni. E per farlo serve una sanità pubblica molto forte. Cosa che noi non abbiamo. Persino in America, patria della medicina privata, hanno capito che serve un sistema pubblico basato sulle tasse pagate dai cittadini. Insomma, serve che chi di dovere si occupi più di questioni sostanziali che formali».
È formale anche la commissione d’inchiesta parlamentare sul Covid di cui le Camere stanno discutendo?
«Lei ha mai visto in Italia una commissione parlamentare che abbia portato a qualche risultato? Io non me ne ricordo neanche una. Quando non si sa cosa fare, si fa una commissione parlamentare così la gente si dimentica e resta tutto come prima. Avrebbe senso solo se composta da persone competenti in grado di dare risposte a tutti gli interrogativi ancora da chiarire. Quella sarebbe auspicabile. Altrimenti è inutile».

Al di là dell’attribuzione di responsabilità, ci sono stati degli errori nella gestione dell’emergenza?
«Qualche pecca sicuramente c’è stata: questo è fuori discussione. A partire dall’aver sottovalutato il dossier che Lancet aveva pubblicato il 14 gennaio, nel quale era spiegato tutto. Lo abbiamo ignorato noi, come il resto del mondo. Solo che altrove, dove la medicina pubblica era più forte – vedi la Germania –, le cose sono andate un po’ meglio. A noi è andata male come agli inglesi. Quindi, vorrei che acquisissimo l’idea che il nostro sistema sanitario è malato ma si può ancora curare. Se qualcuno vuole davvero che le cose migliorino si deve occupare di questo prima che accadano altri disastri».

Lei era all’ospedale ad Alzano in quei giorni tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 2020. Cosa ricorda?
«La disperazione delle persone che telefonavano e che ricevevano delle risposte tipo “Quanti anni ha?, Mi faccia sentire come respira, così capisco se può venire”. Mi ricordo una grande generosità da parte di tutti, anche dei non medici, nel cercare di dare una mano, ma anche un grande disordine e una totale mancanza di organizzazione. Noi ci eravamo messi in testa di curare i malati a casa, abbiamo fatto tanto. Ma certe volte abbiamo dovuto scegliere come si fa nelle situazioni estreme, quelle di “disaster medicine” : si giudica la possibilità che ha una persona di potersi salvare. Mi ricordo di aver detto ai colleghi “se arrivo io in rianimazione, lasciatemi perdere, prendete un giovane. Io ho 70 anni”. E poi la sensazione straziante di dover dire a qualcuno: “Non venga in ospedale perché non c’è posto”».

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