Giovanni Orsina La Stampa 5 marzo 2023
La doppia variabile Elly
L’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Partito democratico è senz’altro una novità importante. Ora che l’evento è vecchio di qualche giorno e la polvere comincia a posarsi, vale la pena ragionare sull’impatto che potrebbe avere sul Pd e sull’intero sistema politico italiano.
Facendo eleggere Schlein dai simpatizzanti, contro gli iscritti che avevano invece scelto Bonaccini, il Partito democratico ha fatto un altro passo in avanti nel suo lentissimo processo di allineamento col tempo del post-partito. Da Tangentopoli e dall’avvento di Berlusconi in poi, la nostra è l’era politica delle leadership.
I partiti hanno una posizione residuale e ancillare, e anche quando non sono stati fondati dal loro leader, restano comunque al suo servizio e alle sue dipendenze. Il Pd e i suoi predecessori non hanno mai fatto davvero pace con questo dato di fatto, e anche per ciò sono sempre apparsi disallineati con la propria epoca.
Con l’elezione di Schlein i democratici si collocano ora in una sorta di posizione intermedia: a metà fra il leader che definisce ed esaurisce il partito e il partito che esprime e contiene il leader, hanno raggiunto un compromesso per il quale il partito ha conservato il controllo delle procedure ma si è infine fatto imporre, da esterni, un leader semi-esterno. Sarà interessante osservare in quale modo evolverà questo compromesso, sulla cui capacità di durare nel tempo è lecito nutrire qualche dubbio.
Schlein è indiscutibilmente allineata col proprio tempo. In questo si specchia alla perfezione in Giorgia Meloni, che è anch’essa del tutto contemporanea. Giovani e donne, nell’era della politica personalizzata e teatralizzata l’ascesa delle due fa già di per sé notizia. Non solo: sono giovani donne dotate di un profilo politico assai netto, coerente con la loro biografia (come fu con Berlusconi: persone-programma), e sono capaci di utilizzare le proprie caratteristiche ideologiche e biografiche per captare l’attenzione dell’opinione pubblica.
Con l’ascesa di Schlein, il Pd trova un’identità definita e cambia radicalmente stile: due novità destinate ad avere un notevole impatto comunicativo e, almeno nel breve periodo, a farsi sentire anche nei sondaggi.
Per biografia e valori, Schlein ha una platea naturale nell’elettorato «globalizzato» dei grandi centri urbani. Qui non raccoglie molto di nuovo: è il bacino del Partito democratico ormai da anni e lei potrà tutt’al più rivitalizzarlo.
Poiché spinge molto pure sui diritti sociali, d’altra parte, il nuovo segretario potrà anche provare ad aprire un dialogo con una fascia consistente di elettorato «periferico», o direttamente, oppure attraverso l’alleanza col Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte, che nelle periferie ha già piantato radici.
Riuscire a parlare all’«alto» e al «basso» sarà per Schlein la missione principale e la sfida più dura. La missione principale, perché soltanto così i democratici potranno tornare competitivi, da soli o in un’alleanza progressista.
La sfida più dura, perché è il terreno sul quale dovranno esser sciolti tre nodi serrati. Il primo, lo si è appena detto, è il rapporto col M5s, che del «nuovo» Pd è un interlocutore ma pure un concorrente. Il secondo è la difficoltà di tenere insieme politiche sociali costose col rispetto dei vincoli economici imposti dal contesto europeo e globale e con la lotta al cambiamento climatico. Su questo terreno, non per caso, Schlein è stata finora assai vaga, almeno tanto quanto lo erano i cosiddetti populisti fin quando stavano all’opposizione.
Potrà restar generica ancora per un po’: come dimostra proprio la vicenda populista, agli elettori interessa sapere quale sia la direzione di marcia, non quali ne siano le singole tappe, e in fondo nemmeno quanto ne sia realistica la meta. Prima o poi, però, dovrà pur precisare qualche dettaglio delle sue proposte. Il terzo nodo, forse il più stretto, è rappresentato dal radicalismo. Tanto sui diritti civili cari agli elettori urbani quanto su quelli sociali che piacciono alle periferie, Schlein – almeno finora – si è collocata molto a sinistra. E il bacino di sinistra-sinistra in Italia non è mai valso più di un terzo dei voti totali.
Spostandosi visibilmente a sinistra, il Partito democratico ha aperto un ampio spazio al centro. I candidati più ovvi a riempire quello spazio sono Calenda e Renzi, e vedremo nei prossimi tempi come sfrutteranno l’opportunità. Ma c’è pure un’altra candidata, molto meno ovvia: Giorgia Meloni. Nei fatti, il governo Meloni è stato finora un governo di centro con qualche puntata a destra, e la premier è stata molto attenta a trasmettere un messaggio tipicamente centrista di realismo, coerenza, affidabilità. Nel momento in cui il Partito democratico si radicalizza, se Calenda e Renzi non dovessero decollare, e non avendo concorrenti a destra, Meloni potrebbe essere tentata a spostarsi lei al centro. Se l’operazione le riuscisse, conquisterebbe un’egemonia solida e duratura.
Si dice spesso che i suoi elettori, che l’hanno eletta perché faccia politiche di destra, non capirebbero. Temo che chi lo dice non abbia capito granché dei suoi elettori, e per un pregiudizio negativo li riduca a una banda di forsennati no-vax. L’elettore medio di destra, in Italia, è diffidente, ombroso e deluso, ma proprio perciò è pragmatico e non si aspetta granché dalla politica. Ha capito che i vincoli europei e internazionali sono stretti e che non c’è molto che si possa fare. Già che al timone ci siano persone da cui si sente compreso, che non pretendono di rieducarlo al verbo progressista, e che almeno provano, qua e là, a far qualcosa che gli piace, gli sembra gran cosa.
Il problema semmai è comunicativo, allora. Schlein pone a Meloni una doppia sfida: sul palcoscenico, in positivo, contrapponendole una leadership fresca e radicale; in sala macchine, in negativo, sgombrando il campo politico centrista. Bisognerà capire se la Presidente vorrà risponderle su un terreno, sull’altro, o – con un esercizio più difficile ma potenzialmente assai ricco di dividendi – su entrambi.