L’Italia divisa in due. Il punto di discrimine è l’antifascismo

Ezio Mauro La Repubblica 6 marzo 2023
L’Italia divisa in due
A settant’anni dalla Liberazione e dalla riconquista della democrazia, il punto di discrimine è l’antifascismo


Com’era facile prevedere, mentre il sistema politico galleggia senza sapere quale sarà il suo approdo e la violenza anarchica torna in piazza, con la vergogna delle sagome di Giorgia Meloni e del ministro Valditara appesi a testa in giù, due Paesi divaricati prendono forma e si contrappongono nella società.

Incredibilmente, a settant’anni dalla Liberazione e dalla riconquista della democrazia, il punto di discrimine è l’antifascismo. Con buona pace di quanti consideravano il giudizio sul fascismo una questione superflua, superata dai fatti e abrogata dal tempo, senza che la comunità civile sentisse il bisogno di un rendiconto nel momento in cui la destra estrema andava per la prima volta al potere in Italia. O meglio: oggi — ripeteva la buona novella — non ha più senso indagare sull’eredità ideale dei vincitori perché i cittadini l’hanno già accettata nella cabina elettorale, dunque basta con l’inventario delle scorie politiche, ormai bonificate dalla maestà del voto.

Pretendere da Giorgia Meloni un gesto di chiarezza rispetto al mondo da cui proviene veniva considerata un’ostinazione passatista, che disturbava il manovratore con sopravvivenze senza più significato, distogliendolo da pensieri e azioni più rilevanti, nell’interesse del Paese. E invece, dietro questa apparente ansia di futuro e questa immagine di attivismo pragmatico, il governo era in realtà impegnato a realizzare il primo punto mai annunciato del suo programma ideologico: neutralizzare la memoria del fascismo, portandolo fuori dalla storia e separandolo dal giudizio che ne ha dato la civiltà democratica europea in cui viviamo, in modo da poterlo recuperare tra le culture nazionali di riferimento riducendolo a puro accadimento, finalmente senza il sigillo di una condanna e il marchio dell’infamia.

La mancanza di un giudizio della premier non è dunque un silenzio, ma un’affermazione. Quando tace sul fascismo — come nel giorno nazionale del disonore, il 28 ottobre della Marcia su Roma — Meloni non è distratta da compiti di governo, ma è esattamente impegnata in quest’opera di revisione culturale che spezza il filo della coscienza repubblicana, il riconoscimento del privilegio della democrazia, l’accettazione della storia.

È come se nel momento di insediarsi alla guida del Paese la nuova destra oltre al potere legittimo del governo cercasse nel Palazzo un dividendo politico in più, immateriale ma fondativo della nuova epoca: la fine dell’antifascismo come cultura civile del Paese, nata dallavicenda storica peculiare che ha portato l’Italia a sperimentare vent’anni di dittatura.

Fatalmente, questa scelta consapevole era ed è destinata a dividere il Paese.
L’antifascismo repubblicano e costituzionale è stato infatti accettato e condiviso in tutti questi decenni come la matrice del pensiero costituzionale italiano, il canale di traduzione istituzionale del processo storico che va dalla Resistenza alla Repubblica, il sentimento nazionale che accompagna il ripristino e la garanzia dei diritti.

Soprattutto l’antifascismo è uno degli elementi fondativi della d emocrazia riconquistata. Per queste ragioni giudicare il fascismo e la sua natura significa rivelare la propria visione della democrazia, proprio quando l’universalità del concetto si è rotta e la parola copre significati diversi, con gli autocrati che teorizzano l’insidia di una nuova “democrazia illiberale”. Significa anche rendere casuale la nostra libertà perché diventa accidentale la liberazione da cui deriva, smarrendo il nesso morale e politico che è alla base della Repubblica.

Di tutto questo l’esecutivo si rende perfettamente conto, rinunciando ad essere il governo del Paese, naturalmente con le sue idee, il suo programma e i suoi obiettivi, ma attento a preservare il deposito di valori accumulato nel divenire repubblicano, come patrimonio comune della cittadinanza.

Il governo invece diventa non solo parte, ma soggetto ideologico attivo di una revisione-restaurazione, di cui probabilmente stiamo assistendo soltanto al primo atto. E si intravvedono le conseguenze di questa erosione della cultura civile repubblicana, prima fra tutte la divisione del Paese in due campi, attraversati da uno scontro ideologico che nasce e cresce nella scuola: con i ragazzi di destra del Blocco Studentesco che scrivono sugli striscioni “la scuola non è antifascista, è libera”, contrapponendo pubblicamente la libertà alla liberazione.

Bisogna domandarsi come mai il concetto di patria si fermi davanti alla lotta per la riconquista della libertà e perché la nuova destra settant’anni dopo non si riconosca pienamente nella democrazia costituzionale come principio fondamentale, compresa naturalmente quella ribellione armata alla dittatura da cui la democrazia è nata. È un problema di radici che non si vogliono estirpare, nella convinzione che siano ancora vitali, o è una questione di semina per una nuova democrazia semplificata e corretta, quando arriverà la stagione?

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