Mario Tozzi La Stampa 6 marzo 2023
“Proteggeremo gli oceani”, ma l’intesa Onu non basta
Solo il 10% dei pesci di grandi dimensioni (presenti nelle acque del pianeta negli anni Cinquanta del XX secolo) è ormai rimasto negli oceani: tonno, pesce spada, merluzzo, razza, tanto per citarne qualcuno, sono ormai vicini all’estinzione.
Ma finora i sapiens hanno negato la cruda realtà dei dati, concedendo ancora margini alla pesca industriale, una vera e propria arma di distruzione di massa, in pratica l’attività umana più distruttiva al mondo.
Prendiamo per esempio pesci molto comuni un tempo, come le platesse, che vengono pescate prima dei sei anni di età, mentre potrebbero raggiungere facilmente i quaranta, e così il merluzzo bianco, che neppure ci arriva, quando potrebbe invecchiare fino a venti.
Tanto che i famosi merluzzi dei Grandi Banchi di Terranova sono scomparsi ormai dall’inizio degli anni Novanta del XX secolo scorso, nonostante la moratoria del 1993, e nulla fa recuperare al mare la fecondità perduta. Anche perché, a differenza degli agricoltori, i pescatori non seminano.
Il “raschiamento della catena alimentare” operato dalle reti a strascico ancora all’opera nei mari è micidiale: per ottenere 1 kg di sogliole si uccidono sedici kg di altri animali marini; in totale circa 30 milioni di tonnellate di pesce vengono ributtate (morte) in mare ogni anno. In pratica, la pesca industriale selettiva non esiste. Se si guardano le dimensioni si comprende che il vero problema delle risorse ittiche mondiali non è l’inquinamento, ma la pesca industriale.
La buona notizia è che qualcosa si sta iniziando a fare, anche se molti dubbi restano su tempi e controlli: i paesi dell’ONU si impegneranno perché almeno il 30% delle acque in cui attualmente tutti i paesi hanno diritto a pescare, navigare e fare ricerche, diventino aree marine protette entro il 2030. Non solo per mitigare la sovrappesca, ma anche contro l’inquinamento, l’eccessivo traffico navale e per adattarsi al cambiamento climatico. Come si vede, però, tempi lunghi per un problema lungamente trascurato che andrebbe affrontato subito e più massicciamente.
In realtà i dati scientifici parlano chiaro: per ottenere il massimo di “estrazione sostenibile” di risorse da un ecosistema marino occorre che il 40% della superficie sia esclusa dal prelievo (e che nel restante 60% si peschi correttamente).
Questo significa che aree “no-take” troppo limitate hanno effetti locali ottimi, ma non risolvono i problemi della pesca. Già nel 2009 la World ocean conference (WOC) aveva sottolineato l’importanza delle Aree marine protette (AMP) per contrastare gli impatti del cambiamento climatico sulla biodiversità in termini di adattamento. Inoltre esse possono aiutare a mantenere i contributi eco sistemici della biodiversità e degli oceani e migliorare l’assorbimento di CO2 anche in acque profonde.
Se gestito in modo efficace e controllato, un network planetario di AMP risponderebbe meglio ai cambiamenti climatici e ad altri stress ambientali, purché la diffusione sia ampia e rappresentativa di tutti gli habitat. Un’area marina protetta in pieno oceano, però, può essere controllata solo da remoto e non è chiaro come intervenire in caso di mancato rispetto. Si tratta di un piccolo passo incerto, dunque, e in ritardo, ma un passo nella giusta direzione, anche se sulle assicurazioni ai paesi più poveri e sui controlli c’è ancora parecchio da fare.
Insieme a questo forse andrebbe suggerita una limitazione della tecnologia di pesca, l’obbligo al recupero degli attrezzi in plastica (oggi talmente poco costosi da essere abbandonati in mare) e un piccolo sforzo anche da parte dei consumatori: non mangeremmo mai un leone o un lupo, ma un tonno o un pesce spada sì, ignorando che si tratta comunque di animali al vertice della catena alimentare e che questi pesci-bistecca andrebbero comunque lasciati in pace, anche per evitare concentrazioni di inquinanti. Se non si attua il nuovo accordo, appena raggiunto dopo quarant’anni dal precedente, e non si cambiano le nostre abitudini alimentari, bisognerà abituarci a nutrirci di plancton e meduse, perché solo quei viventi rimarranno in mare.
E ammesso che i giapponesi ce ne lascino, visto che già ne consumano decine di migliaia di tonnellate sotto forma di wafer rinsecchiti. Ben lontana dall’essere una considerazione marginale, la constatazione che stiamo esaurendo il patrimonio ittico del pianeta al ritmo di oltre cento milioni di tonnellate all’anno significa che abbiamo raggiunto uno dei limiti della crescita umana.
Umanità folle! Anche qui manca la “Consapevolezza”……Devono mettersi d’accordo per stendere una Dichiarazione d’intenti entro il 2030…Imbecilli. Al solito piangeremo quando sarà tardi!!!!!!!!!!!!!😡 Per giunta tutte le guerre in atto peggiorano lo stato di salute di Aria -Terra – Acqua…!!!