Il pacifismo tendenza Elly e la sfida di sanare la grande frattura a sinistra

Stefano Cappellini La Repubblica 7 marzo 2023
Il pacifismo tendenza Elly e la sfida di sanare la grande frattura a sinistra
Domenica sera, ospite del programma di Fabio Fazio, Elly Schlein l’ha messa così: «Continueremo a sostenere l’Ucraina ma serve uno sforzo diplomatico della Ue per la pace». Quale pace? «Una pace giusta, che restituisca l’integrità territoriale dell’Ucraina».

Una dichiarazione a due facce, che conferma la linea del Pd di Enrico Letta ma rafforza la richiesta di uno sforzo per trattare, come chiede per esempio il Movimento 5 Stelle, che però vuole anche chiudere le forniture militari.

Da candidata alla segreteria Schlein ha corretto una linea che, all’inizio della campagna per le primarie, appariva più sfumata sul tema delle armi. Ma il dibattito a sinistra resta aperto e la frattura che l’invasione russa ha provocato – epocale e sottovalutata non è certo sanata, anche perché arriva da lontano.

Un tempo a sinistra, diciamo pure tra i comunisti, era frequente sentir dire: «Sono pacifista ma non sono nonviolento». Significava, in soldoni: sono contro le guerre tra Stati ma non ripudio l’idea che la violenza possa essere necessaria in alcuni momenti storici. Per la rivoluzione, s’intendeva, o per la Resistenza. La distanza tra le due definizioni aveva spesso conseguenze concrete anche nell’agire civile: il nonviolento faceva obiezione di coscienza al servizio militare, il pacifista non necessariamente. Invece i pacifisti di ispirazione cattolica erano, e sono, in genere anche nonviolenti.

Un sottogruppo a parte è sempre stato rappresentato dagli anti-imperialisti – non tutti a sinistra – i quali hanno sempre distinto le guerre mosse dagli Stati Uniti e da altre nazioni del blocco occidentale da quelle intraprese da o tra Stati minori: schierati per la pace nel primo caso, non sempre nel secondo. Nella guerra degli anni Ottanta tra Iran e Iraq simpatizzava con Teheran, in quanto nemico degli Usa e dell’Occidente capitalistico, una parte dei manifestanti che pochi anni dopo si mobilitò contro la guerra del Golfo, dove l’oggetto dell’attacco americano era proprio l’Iraq (che aveva invaso il Kuwait).

La confusione di questi mesi insomma non è figlia di un accidente improvviso: ha fatto esplodere contraddizioni a lungo coperte o negate. Pacifismo è una definizione che ha sempre compreso visioni del mondo diverse e molteplici sfumature politiche. Se ne può ricavare una convinzione definitiva dalla lettura di Guerra alla guerra, Guida alle idee e alle pratiche del pacifismo italiano,
scritto da Matteo Pucciarelli, firma che i lettori di questo giornale conoscono bene, che cerca con sincera passione di trovare un filo all’idea e punta a rispondere alla domanda: come mai, in pieno conflitto sul suolo europeo, il pacifismo stenta a trovare quella voce che in altri passaggi storici s’è levata alta e forte?

Il libro è costruito in montaggio alternato, alcune parti ricostruiscono tappe e personaggi fondativi dell’idea (Kant, Gandhi, Capitini, Bobbio), altri raccontano e fanno parlare le associazioni impegnante da anni sul campo (La Rete per la Pace e il Disarmo, Un Ponte per, la Marcia Perugia- Assisi e altre). Teoria e prassi. Nel libro si parla anche di Chiesa e Anpi. Francesco è ovviamente molto citato dai pacifisti, anche perché, sottolinea Pucciarelli, è un modo per evitare a priori di sentirsi dare dei collaborazionisti. Dell’ Anpi viene rivendicata la linea storicamente pacifista, sebbene il comunicato dell’Associazione partigiani sui massacri di Bucha («Serve una inchiesta internazionale per appurare chi è stato davvero ») resti una ferita che ha offeso la sensibilità di molti.

Un attivista di Un ponte per (in origine Un ponte per Baghdad) prova a rispondere così al quesito di fondo del libro: «C’è una specie di censura mediatica, un occultamento dei media mainstream verso ogni tipo di iniziativa pubblica e che si inserisce in un contesto politico internazionale favorevole invece alle soluzioni di forza».

Valutazione sorprendente, difficilmente condivisibile. Dovrebbe in primo luogo spiegare come mai centinaia di migliaia di persone siano scese in piazza nel 2003 contro l’invasione dell’Iraq, quando non c’erano nemmeno i social e a malapena esistevano i blog, e ancora di più manifestarono nel 1991 per la Guerra del Golfo, quando non c’era nemmeno Internert e i soli tg nazionali erano quelli della Rai, mentre ora che il panorama è zeppo su ogni canale di (presunta) controinformazione il pacifismo sarebbe frenato da una censura dall’alto.

Qui in realtà sta il bernoccolo che non si spiana, che non è nelle accuse reciproche a sinistra (“Putiniani!”, “Guerrafondai!”), spesso infondate entrambe, bensì nella difficoltà di accettare che molti pacifisti non siano disposti a gridare genericamente pace mentre riconoscono l’urgenza degli ucraini di difendere, anche e soprattutto militarmente, il proprio suolo, i propri figli, la propria libertà.

Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, in un’intervista a Repubblica citata nel libro dice: «C’è stato un pacifismo ideologico, anche se oggi il problema è che non c’è più». Ma davvero il pacifismo è sparito? E se la domanda fosse mal posta? La pace è un fine. Nel caso dell’Ucraina può essere considerata anche un mezzo? E soprattutto: chi risponde di no a questa domanda è meno pacifista degli altri?

 

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