Massimo Recalcati La Stampa 7 marzo 2023
Quell’uomo nero che vive in noi
Un grande filosofo come Gilles Deleuze riteneva che il presupposto di fondo della lotta antifascista avesse come prima e imprescindibile condizione la lotta contro il fascista che ognuno di noi porta dentro di sé.
L’intolleranza per la differenza, la convinzione dogmatica di detenere una verità assoluta, la giustificazione politica della violenza, l’odio e lo scherno, l’approvazione della censura e l’interdizione della libertà di parola per chi diverge dalla nostra concezione del mondo, un complesso di superiorità inguaribile, la rappresentazione della Destra come culturalmente indegna, il sarcasmo verso la maggioranza quando il suo orientamento non coincide con i nostri desideri, la tendenza a convertire la critica in insulto, sono in se stesse tentazioni fasciste e autoritarie che hanno paradossalmente trovato diritto di cittadinanza anche nella cultura di gruppo dell’antifascismo.
Lo scrivo con amarezza rileggendo oggi l’antifascismo militante dei movimenti della fine degli anni Settanta ai quali partecipai con grande entusiasmo giovanile.
I miei cattivi maestri di allora non si rendevamo conto che la militanza antifascista che esaltavamo non era, in realtà, altro che il rovesciamento speculare del mostro velenoso che intendevamo combattere. Se non fu quella cultura extraparlamentare ad armare la mano dei terroristi rossi, è certo che per molti dei miei compagni di allora quella violenza cieca era ampiamente giustificata dalla violenza dello Stato. L’assioma ideologico escludeva ogni forma di dubbio: se il cuore dello Stato era un cuore fascista bisognava colpirlo senza indugi. È ovvio che l’azione armata della resistenza partigiana fu tutt’altra cosa. Necessaria e legittima per contrastare la barbarie nazifascista.
Come è altrettanto ovvio che i principi della nostra Costituzione nati da quella lotta devono essere sempre difesi con decisione. Ma nel tempo di una democrazia ormai consolidata nel nostro paese da quasi ottant’anni possiamo provare a essere più intransigenti con il nostro fascismo interno? Possiamo provare a rigettare la tentazione autoritaria che attraversa ciascuno di noi e che spesso ha trovato proprio una certa cultura di sinistra cosiddetta antifascista il suo terreno di coltura? Non a caso Pasolini diffidava nei confronti della retorica antifascista ritenendo che contribuisse a rimuovere in realtà un fascismo assai più insidioso, politicamente trasversale e non partitico, che egli identificava con il potere invisibile della cosiddetta società dei consumi.
Esiste ancora oggi uno squadrismo culturale di sinistra che insistentemente ignora il fondamento laico, antidogmatico, plurale della democrazia e che manifesta una evidente allergia nei confronti delle sue leggi? Non è forse la stessa cultura di gruppo che finisce per colludere con le ragioni della guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina nel nome di un ideale utopico della pace che ha il solo effetto di giustificare una brutale aggressione militare senza consentire al popolo che è stato offeso la sua legittima difesa?
Non è forse la stessa cultura di gruppo che nel nome altrettanto utopico della libertà si opponeva alle misure di prudenza imposte dall’emergenza sanitaria paventando una virata totalitaria dello Stato democratico? Voci che circolano liberamente nei salotti televisivi mentre condannano con vigore il carattere repressivo e, dunque, in ultima istanza, fascista dell’Occidente liberal-democratico.
L’aggressione organizzata, l’uso ideologico della violenza, i comportamenti vandalici, l’esibizione dei simboli dell’odio sono chiaramente estranei allo spirito della democrazia. Ai tempi dei movimenti del ’77 per definire questi comportamenti si usava la formula “organizzazione collettiva della forza”. È la stessa edulcorazione del linguaggio operata dal regime putiniano quando contrabbandava l’orrore criminogeno della guerra con la definizione sterile di una “operazione speciale”. Accadeva alla fine degli anni Settanta nel nome dell’antifascismo. Fu per questa ragione che scelsi di abbandonare quei movimenti per avvicinarmi al Partito Radicale di Marco Pannella.
Il solo, in quegli anni così difficili, a sostenere una autentica politica antifascista che ci ammoniva sulla tentazione fascista che accompagnava ogni esercizio della violenza come arma politica. Ora viviamo in un paese dove il fascismo nella sua forma storicamente determinata non esiste più. Giorgia Meloni, democraticamente eletta dagli italiani, ha giurato sui principi della nostra Costituzione riconoscendoli pienamente. Certo, alcuni dei suoi ministri ci appaiono indegni, incompetenti e possono anche suscitare il nostro più profondo sdegno umano e politico. Ma questo non ci dispensa dal difficile compito di provare a essere giusti con le ragioni dell’antifascismo.
In uno Stato democratico non dovrebbe mai essere legittimato un uso antifascista della violenza – nemmeno di quella verbale che, come la psicoanalisi insegna, non è mai solo verbale – poiché ogni forma politica di violenza resta sempre in se stessa fascista in quanto si contrappone alla legge democratica della parola. Per questa ragione Deleuze ci invitava a presidiare in modo davvero antifascista il nostro foro interno. Non è mai un compito facile perché, come ricordava Umberto Eco, il fascismo non è solo un prodotto storico-ideologico della politica, ma anche una tentazione che anima eternamente la vita umana.
Recalcati, quell’uomo nero che vive in noi. Critica di un certo antifascismo
Massimo Recalcati La Stampa 7 marzo 2023
Quell’uomo nero che vive in noi
Un grande filosofo come Gilles Deleuze riteneva che il presupposto di fondo della lotta antifascista avesse come prima e imprescindibile condizione la lotta contro il fascista che ognuno di noi porta dentro di sé.
L’intolleranza per la differenza, la convinzione dogmatica di detenere una verità assoluta, la giustificazione politica della violenza, l’odio e lo scherno, l’approvazione della censura e l’interdizione della libertà di parola per chi diverge dalla nostra concezione del mondo, un complesso di superiorità inguaribile, la rappresentazione della Destra come culturalmente indegna, il sarcasmo verso la maggioranza quando il suo orientamento non coincide con i nostri desideri, la tendenza a convertire la critica in insulto, sono in se stesse tentazioni fasciste e autoritarie che hanno paradossalmente trovato diritto di cittadinanza anche nella cultura di gruppo dell’antifascismo.
Lo scrivo con amarezza rileggendo oggi l’antifascismo militante dei movimenti della fine degli anni Settanta ai quali partecipai con grande entusiasmo giovanile.
I miei cattivi maestri di allora non si rendevamo conto che la militanza antifascista che esaltavamo non era, in realtà, altro che il rovesciamento speculare del mostro velenoso che intendevamo combattere. Se non fu quella cultura extraparlamentare ad armare la mano dei terroristi rossi, è certo che per molti dei miei compagni di allora quella violenza cieca era ampiamente giustificata dalla violenza dello Stato. L’assioma ideologico escludeva ogni forma di dubbio: se il cuore dello Stato era un cuore fascista bisognava colpirlo senza indugi. È ovvio che l’azione armata della resistenza partigiana fu tutt’altra cosa. Necessaria e legittima per contrastare la barbarie nazifascista.
Come è altrettanto ovvio che i principi della nostra Costituzione nati da quella lotta devono essere sempre difesi con decisione. Ma nel tempo di una democrazia ormai consolidata nel nostro paese da quasi ottant’anni possiamo provare a essere più intransigenti con il nostro fascismo interno? Possiamo provare a rigettare la tentazione autoritaria che attraversa ciascuno di noi e che spesso ha trovato proprio una certa cultura di sinistra cosiddetta antifascista il suo terreno di coltura? Non a caso Pasolini diffidava nei confronti della retorica antifascista ritenendo che contribuisse a rimuovere in realtà un fascismo assai più insidioso, politicamente trasversale e non partitico, che egli identificava con il potere invisibile della cosiddetta società dei consumi.
Esiste ancora oggi uno squadrismo culturale di sinistra che insistentemente ignora il fondamento laico, antidogmatico, plurale della democrazia e che manifesta una evidente allergia nei confronti delle sue leggi? Non è forse la stessa cultura di gruppo che finisce per colludere con le ragioni della guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina nel nome di un ideale utopico della pace che ha il solo effetto di giustificare una brutale aggressione militare senza consentire al popolo che è stato offeso la sua legittima difesa?
Non è forse la stessa cultura di gruppo che nel nome altrettanto utopico della libertà si opponeva alle misure di prudenza imposte dall’emergenza sanitaria paventando una virata totalitaria dello Stato democratico? Voci che circolano liberamente nei salotti televisivi mentre condannano con vigore il carattere repressivo e, dunque, in ultima istanza, fascista dell’Occidente liberal-democratico.
L’aggressione organizzata, l’uso ideologico della violenza, i comportamenti vandalici, l’esibizione dei simboli dell’odio sono chiaramente estranei allo spirito della democrazia. Ai tempi dei movimenti del ’77 per definire questi comportamenti si usava la formula “organizzazione collettiva della forza”. È la stessa edulcorazione del linguaggio operata dal regime putiniano quando contrabbandava l’orrore criminogeno della guerra con la definizione sterile di una “operazione speciale”. Accadeva alla fine degli anni Settanta nel nome dell’antifascismo. Fu per questa ragione che scelsi di abbandonare quei movimenti per avvicinarmi al Partito Radicale di Marco Pannella.
Il solo, in quegli anni così difficili, a sostenere una autentica politica antifascista che ci ammoniva sulla tentazione fascista che accompagnava ogni esercizio della violenza come arma politica. Ora viviamo in un paese dove il fascismo nella sua forma storicamente determinata non esiste più. Giorgia Meloni, democraticamente eletta dagli italiani, ha giurato sui principi della nostra Costituzione riconoscendoli pienamente. Certo, alcuni dei suoi ministri ci appaiono indegni, incompetenti e possono anche suscitare il nostro più profondo sdegno umano e politico. Ma questo non ci dispensa dal difficile compito di provare a essere giusti con le ragioni dell’antifascismo.
In uno Stato democratico non dovrebbe mai essere legittimato un uso antifascista della violenza – nemmeno di quella verbale che, come la psicoanalisi insegna, non è mai solo verbale – poiché ogni forma politica di violenza resta sempre in se stessa fascista in quanto si contrappone alla legge democratica della parola. Per questa ragione Deleuze ci invitava a presidiare in modo davvero antifascista il nostro foro interno. Non è mai un compito facile perché, come ricordava Umberto Eco, il fascismo non è solo un prodotto storico-ideologico della politica, ma anche una tentazione che anima eternamente la vita umana.