La Francia si arrabbia di nuovo

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 9 marzo 2023
La Francia si arrabbia di nuovo
Ieri si liberavano i prigionieri politici, oggi si scassano i bancomat; però sempre rivolta è. La riforma di Macron alla fine passerà. Il presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento; ma non esiste neppure una maggioranza contro di lui

La Francia ritrova la sua maledizione: la riforma delle pensioni. «L’ossessione della tecnocrazia francese» secondo Jérôme Fenoglio, direttore del Monde. La tomba dei presidenti: François Mitterrand abbassò l’età pensionabile da 65 a 60 anni e si inimicò l’establishment, Jacques Chirac la innalzò e si inimicò il popolo; e ora pure Emmanuel Macron si sente poco bene.

Il grande sciopero dell’altro ieri, con tre milioni e mezzo di lavoratori in piazza, è solo una battaglia di una lunga guerra. Macron ha già versato parecchia acqua nel suo vino. Ha posticipato la riforma il più possibile. Ha rinunciato a portare la soglia a 67 anni, accontentandosi di quota 64. Ha riconosciuto esenzioni per i lavori usuranti. Ma qualcosa dovrà pur portare a casa. Resta da capire perché sono proprio le pensioni, e non ad esempio i salari o il lavoro per i giovani, ad accendere la miccia della rivolta.

Nel gennaio 1996 la riforma proposta da Chirac e dal suo primo ministro Alain Juppé, un cauto centrista, innescò la più grande ribellione di strada dai tempi del Maggio 1968. Dopo un mese senza treni né metrò, si rividero a Parigi i cortei dei «controrivoluzionari» che avevano sfilato per De Gaulle. Eppure quella volta gran parte dell’opinione pubblica simpatizzava per i dimostranti. Gli chéminots, i ferrovieri che andavano in pensione a 50 anni come se spalassero ancora carbone nelle locomotive dei romanzi di Zola, incarnarono la rabbia della maggioranza dei francesi.

Edgar Morin e Alain Touraine, che erano già allora i più importanti studiosi della società, spiegarono che si trattava della prima rivolta contro la globalizzazione. L’anno dopo Chirac perse clamorosamente le elezioni legislative.

La spiegazione è che nulla come le pensioni fotografa meglio il contrasto tra le élites e il popolo. Tra il vertice e la base della piramide. Tra i tecnici, che spiegano come dovrebbe funzionare il mondo, e l’uomo comune, che il mondo lo deve vivere com’è; e siccome la maggioranza degli uomini comuni fa lavori duri e malpagati, e accoglie la «retraite» come una liberazione, ogni tanto si indigna moltissimo. Non a caso oggi due terzi degli elettori appoggiano la protesta.

La società francese non avanza per riforme, ma per rivoluzioni. Non è pragmatica, è ideologica. E le strade di Parigi, inutilmente allargate dal prefetto Haussmann per rendere più difficile innalzare barricate, restano un mito politico. Anche se in questo inizio secolo non è più la Libertà a guidare il popolo, come nel meraviglioso quadro in cui Eugène Delacroix incarnò la Francia in una donna a seno nudo che impugna un fucile e un tricolore sulle barricate; ma spesso è la Reazione, impersonata dalla jacquerie dei Gilet gialli. Ieri si liberavano i prigionieri politici, oggi si scassano i bancomat; però sempre rivolta è.

La riforma delle pensioni di Macron alla fine passerà. Il presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento; ma non esiste neppure una maggioranza contro di lui. Quel che rimane della destra moderata potrebbe appoggiarlo; e in ogni caso la Francia è una Repubblica semipresidenziale, i meccanismi di protezione dell’esecutivo consentono di far passare una legge anche senza la maggioranza dei voti. Ma non è con queste forzature che si sciolgono i nodi politici, che si governa un grande Paese europeo.

Jean-Luc Mélenchon, il capo della sinistra radicale, sta ovviamente con i dimostranti, e chiede di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Non le avrà: Macron non vuole rischiare. Marine Le Pen è più prudente. Da antisistema è diventata o vuole diventare «femme d’Etat», donna di Stato. I francesi, che la consideravano un’outsider, cominciano ad abituarsi a vederla all’Assemblea nazionale alla testa di quasi novanta deputati: la pensano ormai dentro il Palazzo, non più fuori e contro.

Macron ha rappresentato per il sistema francese la diga contro il populismo, quello di sinistra e quello — più forte — di destra. Ha ancora quattro anni di potere, ma non potrà ricandidarsi; e il suo successore designato, Edouard Philippe, già portavoce di Juppé, sta male, soffre di una malattia misteriosa che potrebbe metterlo fuori gioco. Solo il tempo dirà se Marine Le Pen è condannata ad arrivare fin sulla soglia dell’Eliseo senza entrarvi mai, o se si rivelerà la Mitterrand di destra, che perde più volte ma alla fine vince.

In ogni caso, la Francia sente di non contare molto più di nulla nel nuovo ordine mondiale; e chiede almeno di vivere meglio. Le disuguaglianze mordono la coesione sociale. Per restare ai fatidici chéminots, le Ferrovie dello Stato hanno chiuso l’ultimo bilancio con oltre due miliardi di utili; ma per un Tgv che sfreccia, ci sono dieci treni pendolari sporchi e lenti. Però i pendolari sono molti di più dei passeggeri dei treni ad alta velocità. E sono arrabbiatissimi.

 

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