Paolo Mereghetti Corriere della Sera 13 marzo 2023
Everything Everywhere All at Once e gli altri Oscar: se il messaggio trionfa a dispetto del contenuto
L’ansia di premiare i film concepiti come «risarcimento» vedi gli asiatici in «Everything Everywhere All at Once» rischia di oscurare la qualità vedi Spielberg o Farrell
Forse bisognerebbe dividere gli Oscar in due: quelli che vengono dati cercando di rispettare le qualità in campo e quelli che invece vogliono contenere un messaggio, un qualche tipo di risarcimento o di indennizzo. E mai come quest’anno, per la novantacinquesima edizione del premio cinematografico più famoso del mondo, questa distinzione è stata evidente, quasi violenta direi.
Cosa ha spinto i circa 9660 membri dell’Academy ad attribuire sette statuette a Everything Everywhere All at Once (comprese quelle pesantissime del miglior film e della regia) e quattro a Niente di nuovo sul fronte occidentale lasciando a mani vuote film oggettivamente (e peso gli avverbi) migliori come Gli spiriti dell’isola e The Fabelmans o attori come Cate Blanchett e Colin Farrell?
È tutto un sistema di cose verrebbe da dire, dove si intrecciano la speranza di trovare un grimaldello per portare i giovani al cinema (ma è il film dei Daniels la strada giusta? Con la loro sudditanza dai videogiochi che del cinema sono oggettivamente – anche qui so cosa scrivo – nemici?) insieme al bisogno di includere nell’olimpo hollywoodiano gli attori asiatici dopo averlo fatto con quelli di colore.
O ancora la voglia di mettersi la coscienza in pace premiando un film sulla guerra che del massacro e della carneficina sui campi di battaglia fa inquietante oggetto di spettacolo (e dimenticando chi invece sui drammi della storia come la dittatura argentina sa riflettere in modi adulti e cinematograficamente alti, come il film di Santiago Mitre, battuto da quello di Edward Berger nella categoria delle opere internazionali). Così come il premio a Brendan Fraser è una specie di non-senso perché il trucco prostetico finisce per soffocare l’espressività dell’interprete, ma ancora una volta il messaggio (di un padre prigioniero delle sue pulsioni di morte) e il ricatto dei sentimenti (la voglia di ricucire con la figlia) finiscono per vincerla sulla bravura e la recitazione.
Dove i premi hanno colto nel segno è nelle categorie tecniche: inattaccabile quello per gli effetti speciali ad Avatar – La via dell’acqua (e avrei voluto vedere una scelta diversa) o il sonoro a Top Gun – Maverick o il montaggio a Everything Everywhere All at Once e il trucco a The Whale (questi tutti davvero meritati).
E gli italiani? Sia Alice Rohrwacher che Aldo Signoretti si sono dovuti accontentare della nomination. Il truccatore italiano, che pure aveva fatto un lavoro egregio per Elvis (insieme a Mark Coulier e Jason Baird) si è trovato a combattere contro il favoritissimo The Whale e la giovane regista italiana, in gara con Le pupille nei corti live action, forse ha pagato l’alto tasso di poeticità del suo soggetto: chi ha vinto (An Irish Goodbye) aveva scelto un argomento più concreto (due fratelli che non si vedevano da tempo si ritrovano dopo la morte della madre) giocando anche la carta della disabilità (uno dei due fratelli ha la sindrome di Down).